È un po' come un vecchio armadio: cominci ad avere troppa roba da metterci e alla fine non ci sta più dentro nulla. La Coppa Davis è in realtà un'insalatiera ancora lucente e neanche tanto piccola, ma di questi tempi ormai i soldi che le girano intorno sono diventati troppi per riuscire a metterli dentro. Diciamo, anzi, che ci hanno provato: l'insalatiera infatti si è rotta.
Oggi a Lilla insomma quella tra Francia e Croazia sarà l'ultima finale di un trofeo nato nel 1899 dalla mente di Dwight F. Davis - uno studente di Harvard - per la sfida tra Gran Bretagna e Stati Uniti: Dwight progettò la formula, comprò la coppa d'argento di tasca sua e la mise in palio allo scoccare del Ventesimo Secolo. Dal 1900 ad oggi la sua coppa è stato il simbolo di uno sport che il resto dell'anno è il più egoista di tutti, e che invece adesso diventa improvvisamente una disciplina per patrioti spinti in realtà dall'egoismo del denaro. Perché il fatto è proprio questo: nonostante tutto quello che ci hanno raccontato Gerard Piquè (il giocatore del Barcellona che ha guidato la cordata d'affari che ha cambiato le regole) e la Federazione internazionale, la Coppa Davis muore definitivamente in questo weekend. Quella che avrà il suo nome è solo un'illusione. Anzi: un'illusionismo.
Non è questione di nostalgia: lo sport si evolve e ormai si regge su un business che dà molto e chiede sempre di più. Il caso del calcio, che tra qualche anno confinerà i campionati nazionali a metà settimana per far spazio ai milioni garantiti dalla Champions League, è l'esempio più evidente. Ma questo non significa dover per forza uccidere la tradizione facendo finta che non sia successo nulla. Perché dietro alla (cosiddetta) nuova Coppa Davis, si nasconde una battaglia economica e politica che rischia di far saltare il banco.
In pratica, si dice: la Davis cambia perché i big non erano più tanto interessati a distrazioni nel calendario personale; perché perdere tempo per la nazione non portava né montepremi, né punti. Adesso invece che intorno girano tanti soldi e tanti interessi, ecco che all'improvviso diventa un indispensabile campionato internazionale a 18 squadre che dura una settimana a settembre in sede unica (con un prologo a febbraio e comunque tutto due set su tre). Ecco che addirittura l'Atp rilancia con una competizione del genere a gennaio che fa esattamente scopa. Ecco che poi al calendario si è già aggiunta la Laver Cup voluta da Roger Federer (e qui è Europa contro Resto del Mondo). La Patria insomma, l'appartenenza dunque, diventano improvvisamente di moda. E in tutto questo, casualmente, spunta sempre lo stesso nome: quello di Craig Tiley, direttore dell'Australian Open, promotore dell'Atp Cup e consulente per la Laver Cup. Una specie di semaforo (molto ben pagato) all'incrocio tra la Federazione internazionale e l'associazione giocatori. Conflitto d'interessi? Vedete voi...
Insomma: la coppa Davis era 3 su 5 su campo per niente neutro e il tifo caciarone. Quest'altra cosa sarà una splendida esibizione a cui i big del tennis parteciperanno perché la relativa perdita di tempo varrà il ricavo finale. Anche se, in realtà, l'Atp Cup rischia di uccidere tutto, perché i giocatori lì hanno in mano tutto il banco.
E mentre Djokovic, Nadal, Federer e i nuovi fenomeni della Next Gen fiutano l'aria e prendono posizione ma non troppo, in mezzo resta il tennis e la passione dei tifosi. E il ricordo di un tennista che acquistò un trofeo con i suoi soldi giusto per il piacere di partecipare.
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