Meroni figurina immortale di un calcio che era poesia

Cinquanta anni fa la scomparsa del campione granata Luigi Meroni. Celebrato adesso, meno quando giocava: colpi da fenomeno, ma vita un po' naif tra le tragedie del Toro

Meroni figurina immortale di un calcio che era poesia

Come è comodo scrivere oggi e raccontare e ricordare la vita di Gigi Meroni. Come era scomodo, scrivere e raccontare la vita di Gigi Meroni mezzo secolo fa, quando era un capellone, bohemien in un mondo conformista e a volte noioso. Aveva ventiquattro anni quando attraversò quel viale bello che porta il nome del Re Umberto. Fu prima il suo esilio, al pronto soccorso, poi l'urlo di Cristiana, il suo amore, quando il medico annunciò la morte. E allora nacque la leggenda di Gigi, la farfalla e il fuoriclasse. Per chi era giovane, di football e di esistenza, la scomparsa di Gigi fu come una pellicola strappata di un film a colori. Meroni non era un vero fenomeno con il pallone, lo era nella sua vita quotidiana, lo era nella sua Balilla oggi conservata nel museo delle cose care del Grande Torino che ebbe la stessa fine tragica. Meroni amava la puttura e certe sue giocate erano colpi di pennello, il dribbling era stretto e ubriacante, si diceva e si scriveva così, diventò epocale il gol segnato all'Inter, nel teatro di San Siro, dopo aver superato tal Facchetti Giacinto e messo il pallone con lo zembo (in gergo era il calcio ad effetto) alle spalle di Sarti Giuliano. Fu quello il suo fuoco pirotecnico che lo impose all'attenzione di tutti, non soltanto ai vecchi cuori granata. Tanto che Gianni Agnelli se ne innamorò e in cambio di milioni di lire 700 lo aveva bloccato per trasferirlo alla Juventus. Meroni non andò alla Juventus e concluse tragicamente la sua vita breve e piena di cose. Restano i ricordi, cinquant'anni dopo, che sono diventati leggendari, come accade con certe figure, trascurate da viventi.

Anche la nazionale lo accarezzò appena, il commissario tecnico, Fabbri Edmondo, non riusciva ad accettare un ragazzotto naif, con i lunghi capelli, come i Beatles, dunque la trasgressione. In verità Gigi Meroni non era affatto un trasgressivo, un eversore. Amava vivere la vita così come la vita si presentava, fosse il suo studiolo in piazza Vittorio a Torino, fosse la rosa che Cristiana poneva nel piccolo vaso d'acqua ogni mattina, fosse lo stadio Comunale dove il Toro giocava la domenica o il Filadelfia nel quale il Toro si allenava fino al giorno prima. Oggi Meroni, con quel fisico non certo palestrato, verrebbe frantumato da avversari potenti ma, non per questo, conserva il fascino e il sapore di un football di cui si sono smarriti i ricordi e i profumi, i calzettoni arrotolati sulle scarpe da gioco, le sigarette, l'alcool, le corse notturne in collina o sul lungo Po.

Torino e il calcio non sono più quelli di allora ma Meroni, in verità, non è mai morto davvero, così forse, non era mai nato davvero.

Ecco perché la sua storia resta diversa da tante altre, legata a una squadra che si porta appresso il senso malinconico della tragedia e da questo, come la Fenice, risorge. Oggi il calcio dovrebbe osservare un minuto di silenzio in memoria di se stesso, cioè dell'arte del gioco. La figurina di Gigi Meroni resta ben incollata nel mio album.

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