A sentire i protagonisti della vicenda, la cessione del Milan al fondo cinese che sta diventando un mistero buffo, è successo tutto all'improvviso. Ma si può scoprire all'improvviso, a 72 ore dal closing fissato da dicembre scorso e preparato persino in alcuni dettagli (la visita alle autorità, la scelta dello studio notarile dove fare la girata delle azioni, la composizione del prossimo cda coinvolgendo un paio di manager molto quotati), che non c'è la copertura finanziaria per chiudere l'operazione? La risposta è scontata: no, dieci volte, cento volte no. E allora bisogna ripercorrere le tappe della frenetica giornata di ieri per rammendare una tela che ha buchi da tutte le parti. Il primo allarme è arrivato via web lanciato dal sito Dagospia, presto confermato dalla traduzione di un dispaccio di AgiChina che ha riportato le frasi della responsabile pr di China Merchant Bank. Ha dettato: «Non sappiamo niente dell'investimento nel Milan. Siamo quotati in borsa e perciò trasparenti. Una notizia del genere, se fosse vera, sarebbe già stata resa pubblica». Parole che hanno gelato gli entusiasmi destati dall'esito del vertice di lunedì ad Arcore. A quel punto l'allarme si è trasformato in panico. Perché dal fronte Fininvest e da quello dei rappresentanti italiani di Yonghong Li, il capo riconosciuto di Ses, la società che ha firmato il preliminare d'acquisto il 5 agosto e fissato per il 3 marzo la conclusione dell'affare Milan, sono giunte o risposte imbarazzate oppure silenzi rumorosissimi. «Noi stavamo completando il programma del fine-settimana» hanno fatto sapere dell'agenzia di comunicazione incaricata di seguire il fondo cinese. Erano al lavoro con palazzo Marino e la Regione per fissare gli incontri istituzionali con il sindaco Sala e il governatore Maroni, prenotato pure lo studio notarile per la voltura delle azioni rossonere attualmente in dote a Fininvest.
Nelle stesse ore, attraverso il sito milanista, Fininvest ha fatto sapere di aver annullato la prima data dell'assemblea, fissata per oggi, confermando invece quella del 3 marzo. «Una formalità per rispetto degli azionisti», la spiegazione della fonte senza però nascondere, contestualmente, la preoccupazione per «la situazione complicata». Alla domanda del giorno («cosa è successo per giustificare questo ennesimo colpo di scena?») la risposta è una sola: alcuni sottoscrittori del fondo si sono tirati indietro e il capo di Ses è rimasto col cerino in mano e senza la cifra da versare con i tempi giusti.
Da Marco Fassone, l'ad in pectore che ha vissuto le ultime settimane andando in giro per l'Europa, in compagnia del ds designato Mirabelli, a vedere partite di Champions, incontrare dirigenti di altri club e spiegare i piani del futuro Milan, nessuna spiegazione. Né pubblica, né privata. Stessa strategia da parte di Fininvest. Inutile attendere la scadenza di venerdì, quindi. Non ci sono più i tempi tecnici per concludere l'affare il 3 marzo. Figuraccia garantita per il fondo cinese e i suoi esponenti, meno per i manager della holding della famiglia Berlusconi i quali hanno almeno in cassaforte i 200 milioni. Nelle prossime ore Silvio Berlusconi deve decidere quale sentiero imboccare: a) se prendere atto del termine scaduto e considerare quindi inadempiente Ses chiudendo la pratica con un attivo in cassa di 200 milioni; b) molto più probabilmente, se accettare la richiesta di una seconda proroga al 31 marzo a fronte del versamento di una nuova caparra da 100 milioni.
A rimetterci, oltre alla credibilità del fondo e dei suoi rappresentanti, italiani e cinesi, è purtroppo il povero Milan,
paralizzato da mesi per via del closing promesso e mai realizzato con alle viste alcune scadenze fondamentali (i rinnovi contrattuali di alcuni giocatori, Donnarumma il primo della lista) che potrebbero compromettere il futuro.
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