Un mito infranto Il triste addio bis di kaiser Schumi

Ha impiegato più o meno un migliaio di giorni per prendere a martellate il proprio mito. Per scalfirlo prima. Per incrinarlo poi. A Michael Schumacher non è invece riuscita l'impresa di sbriciolarlo completamente solo perché era talmente immenso e maestoso e imponente, il mito, che proprio non ce l'ha fatta a montarci sopra per abbatterlo. Ci sarebbe voluta l'atomica. Però c'è andato vicino. Però quanti dubbi ha saputo instillare nei suoi fan. Perché allora vinceva con la Rossa e la Benetton che erano di un altro pianeta... Perché allora Hakkinen e Villeneuve e Hill e Coulthard e Montoya non erano tutto questo granché... No, sarebbe ingiusto e sbagliato pensarla così. Quelle auto erano veloci ma lo erano diventate grazie a lui. Soprattutto la Ferrari. E i rivali erano dei signori piloti, forse non degli Alonso e dei Vettel, ma bravi. È questa F1 playstation, con le gomme a tempo determinato e le ali mobili e i pit stop non più cruciali come ai tempi suoi ad essere diversa. Poi i 43 anni certo contano. Ma sarebbero contati meno se fosse stata ancora la sua F1. Ha sbagliato in questo, Schumi. A non accontentarsi dell'immensità che aveva conquistato, a non vedere oltre. E ha pagato caro.
Dopo 91 Gp vinti che sono rimasti i 91 della prima carriera, dopo 7 titoli mondiali che sono rimasti i 7 della prima avventura - 2 in Benetton, 5 in Ferrari -, dopo tre stagioni griffate Mercedes pari a 52 corse di cui una sola a podio e spogliato degli aggettivi roboanti che ne avevano sempre preceduto il nome, Schumi ha annunciato in Giappone il ritiro bis. «È tempo di riprendere una vita normale» ha detto «non ero più sicuro di avere le motivazioni necessarie, non è mio stile proseguire se non sono al 100%, ad un certo punto è giusto dire addio».
Purtroppo, quel «certo punto» non doveva essere ieri, ma domenica 22 ottobre 2006. Quella sera, a Interlagos, San Paolo del Brasile, dopo aver perso il titolo contro Alonso, dopo aver lottato per tutta la stagione, dopo essere uscito di scena con gara e tempi maestosi e da mito immenso qual era e non è più, quella sera brasileira Michael disse addio alle corse indossando jeans e un giubbotto di pelle che pareva James Dean. Aveva l'aura dei grandi, del più vincente di sempre. E aveva una famiglia ad attenderlo a casa e due ragazzini, Gina Maria e Mick Jr. di 9 e 7 anni che, va bene tutto, ma era da sempre che papi a casa non lo vedevano quasi mai. Adesso che i figli hanno 15 e 13 anni, figli a cui - come per i tifosi - per troppo volere ha tolto per sempre la certezza di quanto fosse invincibile, adesso che a Suzuka ha di nuovo detto addio, stonano il grigio vestito Mercedes e la grigia espressione di ieri se paragonati con l'affascinante James Dean di San Paolo. E stona ancor di più perché questo saluto non arriva dopo aver lottato per il titolo, bensì solo per restare in pista. I 7 ritiri in 14 Gp disputati quest'anno e l'imbarazzante tamponamento di due settimane fa a Singapore sono solo alcuni dei frammenti caduti dal mito infranto. Persino le frasi usate dai big nel commentare l'annuncio sembrano solo parole di circostanza, prive di quell'ossequioso rispetto che si deve al più vincente che lascia. Ross Brawn nell'accomodare il mito alla porta per far posto a Hamilton lo definisce «il pilota del secolo» però ha già la testa altrove; Lewis gli dà dell'«insostituibile» e intanto lo sostituisce in Mercedes; il connazionale Vettel parla di «grande perdita» ma nessuno di loro tira alcun sospiro di sollievo nel vedere il collega andar via perché nessuno ha vissuto il secondo Schumi come un vero rivale.

Unico commento schietto quello di Flavio Briatore, suo scopritore: «Michael ha fatto la cosa più intelligente con qualche anno di ritardo». Già, in ritardo. San Paolo 2006, James Dean, quella sera furono molti i piloti a tirare un sospiro di sollievo.

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