“Dateci altri cartoni di palline, la bambina prova tutto il giorno”. Nick Bollettieri, che ha fondato l’omonima Academy intenta a coltivare prodigi tennistici con modalità militari, sgrana gli occhi. Qui si fa sul serio, d’accordo: chiedere ad Andre Agassi per avere conferma. Una così però non l’aveva mai vista. Se gli altri provano lo stesso colpo per mezza giornata, lei si tritura i polsi fino a notte fonda. Se qualcuno pensa di avere infilato il rovescio giusto dopo settimane, lei si annienta per mesi interi, finché non l’ha trovato. Una ferocia inaudita alimenta il suo talento ruvido.
Lei è Monica Seles. Viene da Novi Sad, Jugoslavia: nel 1973 - quando nasce - il paese è ancora ancora lontano dal dissolversi. Fino alla Florida è un bel tragitto, ma ne vale la pena. Nick la annusa e intuisce la futura campionessa dietro una carta d’identità ancora immacolata. Per questo la getta subito nella mischia, contro ragazze più grandi di almeno dieci anni. Cadono tutte, infilzate da quel terrificante rovescio bimane, martoriate da quel suo modo di brutalizzare la racchetta fino a farne una messaggera di morte sportiva. Monica aggredisce campo e avversari con uno stile nodoso, ma formidabile. Appollaiato a bordo campo, Nick prende nota. Adesso è tempo di solcare altri palcoscenici. Bollettieri non lo sa ancora ma la Seles, con la stessa ferale attitudine che la contraddistingue in campo, lo scaricherà strada facendo.
Maggio 1989. Il cielo di Houston è giardino di lanci verso lo spazio, ma stavolta per entrare in orbita basta osservare le movenze di questa quindicenne che si aggira ai Virginia Slims trangugiando avversarie. La sua non è impudenza, ma spiffero genetico. Prima ti asfissia distribuendo chirurgiche bordate laterali, quindi arriva lo schiaffo siderale. Roba che stende. Gli occhi da infante, di quell’azzurro granulare, sono iniettati di sangue. “She’s the next”. Lei è la prossima, mormora una trasecolata Chris Evert, reginetta del tennis impallinata in finale dalla dinamite che Monica imprime ad ogni colpo. L’asticella si impenna ancora. Roland Garros. Qui non si tratta di affrontare reali. Qui scendono direttamente in campo le divinità. Il sogno si infrange in semifinale contro la dea Steffi Graff, ma la tedesca ne esce talmente scossa che si smarrirà in finale contro Arantxa Sanchez.
L’appuntamento però è soltanto rimandato. Ancora internazionali di Francia, ventiquattro mesi dopo. Lei ha soltanto 16 anni e 6 mesi. Ancora Steffi Graff davanti, ma stavolta in finale. La tedesca inizia con un palleggio vigoroso, ma la belva di Novi Sad - soprannome quantomai guadagnato - risponde colpo su colpo. A mano a mano l’inerzia di Graff si affievolisce. Il rovescio diventa rattrappito. Il dritto fuori tempo massimo. Quella piccola avversaria dall’aria giocosa, eppure letale, addenta la scena. Negli occhi della campionessa la paura galoppa. “Terrorizzata da una bambina”, titoleranno i giornali il giorno dopo. Piccola e leggera, eppure distruttiva. Con il suo tennis tribale affonda certezze che sembravano granito. Seles annulla match point in sequenza, si diletta nel serve and volley, gratta via la terra rossa con rovesci esplosivi. Steffi, stranita, avvizzisce. Sedici anni a sei mesi.
Ma oltre al trofeo Monica incassa un premio più importante: la paura che adesso incute alle avversarie diventerà il suo servizio migliore.
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