È morto Vilanova La partita persa dell'altro Guardiola

È morto Vilanova La partita persa dell'altro Guardiola

Uno si fa tutta la trafila, passa dalla scuola alle giovanili, poi da vice allenatore della selezione B è promosso alla prima squadra, e sempre in compagnia del suo grande amico Pep, sebbene sempre un passo dietro. Però senza rancore. Allenerà Lionel Messi, come fa Tito a sentirsi in credito con qualcuno o qualcosa, perfino la sorte. Mettiamola così: se sei sulla panchina della squadra più forte del mondo, e anche se sei solo un vice, l'ultimo dei pensieri è che da un momento all'altro potresti morire. Ti attendono vittorie, trofei, fan sulla porta di casa, titoli, soldi, e poi chissà, mai porsi limiti, se sei un grande sei un grande. Del resto è stato proprio Guardiola a raccomandarsi di averlo al fianco per la sua abilità di tattico, era un grande nelle strategie tanto che molti avevano messo in dubbio i successi del catalano sulla panchina del Bayern. Senza Tito Vilanova. Con Pep non è sempre filato tutto liscio ma cosa importa, diceva Tito, noi siamo amici. In fondo Pep Guardiola è stato il primo a finire orfano di Vilanova ma quello era solo eufemismo, non era realtà. Alla faccia delle cure.
Ogni giorno una luce, ogni giorno una nuova sconfitta. Ci stiamo abituando a non crederci più, se accade il contrario è un miracolo. A Tito Vilanova gli avevano trovato un tumore alla ghiandola parotide mentre stava facendo la valigia per venire a San Siro per una trasferta di Champions contro il Milan, era il novembre 2011, l'hanno ricoverato con urgenza e con altrettanta solerzia operato. Chissà quanti lo hanno dato subito per perso, e non sono stati i soliti becchini, no, ce lo sentiamo dentro certe volte. Che se non è sfiga spiegateci cos'è. Uno prima diventa famoso non per quello che ha fatto vedere nel mestiere ma perché una sera Josè Mourinho gli infila l'indice in un occhio. E poi peggio. Di lui si parla solo perché ha un tumore e tutta la Catalogna prega, lo mette in panchina ugualmente in quanto lui era l'erede designato di Guardiola e lui deve sedersi là dove si è seduto il suo amico. A luglio scorso aveva detto che si sentiva stanco, forse non era il caso di rimanere lì su quella panchina e non poter dare tutto quello che aveva. È andato in America a curarsi, c'erano i soldi e c'era il sostegno di tutto il mondo del calcio a soffiare dalla sua parte, un vento caldo che arriva da chi ama, non c'è ipocrisia, dai Tito, si era riavvicinato anche Pep che non era andato a trovarlo neppure quando era ricoverato a New York. Ma non si può fare notizia solo perché hai il cancro, non si può perché non è giusto, è immorale, quattro interventi prima di arrendersi, l'ultimo poche ore prima.
Una settimana fa un amico lo aveva invitato per trascorrere alcuni giorni assieme. L'amico aveva stabilito che si sarebbero visti a maggio, sempre che Tito non avesse impegni più urgenti. Tito gli rispose che maggio gli appariva un mese talmente lontano. Molto più di una previsione, proprio come quando pochi giorni fa era entrato in clinica per esami di routine e l'avevano portato subito in camera operatoria.

Uno come lui, uno con quello che aveva già passato lui, deve aver capito subito di cosa si trattava, forse è questa la pena maggiore, il dolore dentro che ci lascia uno che vede girarsi l'angolazione del mondo, tutto che si piega e poi sparisce dentro la terra.
Adesso è il momento della memoria, una di quelle cose che si devono.

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