di Tony Damascelli
Q uando il Napoli vinceva, Luigi raccontava del pubblico festante e del cielo sopra il San Paolo. Quando Maradona segnava, Luigi narrava, senza enfasi, la danza aborigena di Diego Armando. Se ne è andato un pezzo di noi, Luigi Necco, giornalista vero, totale, non soltanto di sport come si poteva ritenere al tempo bello di quel Napoli dell'Ingegnere, Corrado Ferlaino. Luigi aveva la cultura che è sostantivo smarrito tra i contemporanei, figli saturi di erudizione da wikipedia. Il suo sapere andava oltre il calcio d'angolo e il dribbling, conosceva l'archeologia e la frequentava, per studio, sul campo, l'Occhio del faraone è stata la trasmissione televisiva che di questo si occupava, tra scavi e scoperte lontane.
La domenica di Necco era la domenica dell'altra Italia che aspettava il collegamento con Napoli, per vedere Luigi accerchiato dai tifosi del Ciuccio e lui, in mezzo, a sgomitare con eleganza, chiedendo qualche secondo in più a Paolo Valenti nel Novantesimo Minuto che era come il pacco di Babbo Natale sotto l'abete. Una volta, quando il Napoli superò 3 a 0 il Milan, Luigi concluse il suo intervento con la frase storica: «Milan chiama, Napoli risponde», agitando, con la mano destra a mo' di saluto, le tre dita dei gol nella rete rossonera. Poteva permetterselo, per ironia e sfottò tipiche dei napoletani. Poteva permetterselo perché sapeva ironizzare anche con se stesso e con la categoria: «Chi nun sape fa niente fa 'o giurnalist, chi non sape fa 'o giurnalist fa 'o giurnalist sportivo», lo ripeteva con la smorfia sulla bocca e dissacrando il mito di chi si ritiene depositario del verbo, raramente del complemento oggetto e del predicato.
Al mondiale messicano dell'Ottantasei, quello del trionfo argentino e di Maradona, viaggiava in coppia con Gian Piero Galeazzi che ha ricordato tra le mille zingarate negli stadi e negli spogliatoi di mezza Italia, quando si smarrirono con l'automobile e finirono in un paesino abitato da indiani messicani che li accolsero come eroi mandati dal cielo, offrendo una zuppa fumante di carne. Trattavasi di perro, dunque cane, Necco e Galeazzi, soprannominato non per quello Bisteccone, ingoiarono la minestraccia, salutarono la comitiva e si portarono appresso, in eterno, il sapore improbabile.
Luigi si è occupato di calcio e, soprattutto, di fatti quotidiani, girando con una piccola telecamera per le strade dei terremoti e degli abusi, camorra e affini.
Per questo, quando raccontò in tivvù della medaglia d'oro donata dal presidente dell'Avellino Antonio Scibilia, per mano di Juary, a Raffaele Cutolo, venne raggiunto da tre colpi di pistola, all'uscita di un ristorante di Mercogliano, per ricordargli di tenersi alla larga dalla vicenda, ribadita con una gentile scritta sul parabrezza della sua vettura:«Vulive fa o criticon'e?». Necco non fece il martire e nemmeno la vittima. Ha proseguito la sua battaglia civile, smentendo la sua battuta: non sapendo fare niente ha fatto benissimo il giornalista.
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