Grazie, Signor Rossi. L'italiano "normale" diventato con i gol bandiera di un Paese

Non faceva il fenomeno, non aveva dribbling ubriacanti, con le scommesse era sprofondato ma poi si è rialzato. Regalandoci la favola del Mundial '82

Grazie, Signor Rossi. L'italiano "normale" diventato con i gol bandiera di un Paese

Paolo Rossi era uno di noi. Non è soltanto una frase di Venditti, riferita ad un omonimo. È stata la verità che ci ha accompagnato in questo viaggio maledetto, vigliacco come è codardo l'anno che si sta portando via fette grandi di vita, di avventure, di sogni e di trionfi e di paura. Paolo Rossi non era soltanto un centravanti che faceva gol. Era il compagno di classe che rispondeva a tutte le interrogazioni e prendeva sempre la sufficienza, a volte anche maiuscola. Era ben pettinato, stava seduto al primo banco, salutava tutti, dal maestro alla bidella e poi giocava a pallone con noi. Per quella generazione era l'amico da invitare a cena, da tenere come vicino di ombrellone, con il quale organizzare la festa in casa, arrivavano le ragazze e lui si schermiva, firmando però gli autografi. Non faceva il fenomeno, non aveva un dribbling ubriacante e anche di testa non era un gigante da fare paura. Anzi, avendo gambe fragili, con ginocchio tendente al valgismo, cercavi di spiegarti, inutilmente, come mai riuscisse a fregarti con quella finta che, forse, gli veniva naturale proprio per l'assenza dei menischi, bruciati sui campi duri del Marchi e del Combi, con la maglietta bianconera. Alla Juventus lo volle Italo Allodi; Rossano, fratello di Paolo, aveva tentato, un anno prima, la stessa strada ma fu rispedito a casa; per quattordici milioni e mezzo di lire, soldi veri, Paolo si trasferì nel collegio di Villar Perosa che stava dentro il dopolavoro della Riv, la fabbrica dei cuscinetti per la Fiat. A piano terra i pensionati giocavano a carte, al secondo piano quattro stanze, in una dormiva Paolo, al piano superiore, dodici locali per trenta allievi. Si mangiava bene al dopolavoro, gestito da una famiglia veneta, i Carraro, si fumava di nascosto e un giorno, proprio nella camera di Paolo, si ritrovarono in quattro con le loro svaporine. Quando udirono i passi del Tisi, il responsabile del dormitorio, infilarono i mozziconi dentro i tubi di plastica che sorreggevano la branda, Paolo fu il più lesto, come sarebbe sempre accaduto, chi rimase con la sigaretta tra le dita fu Meco Marocchino che pagò la multa, erano duemila lire, per gli sbarbati che viaggiavano a trentamila fu un divertimento. Paolo giocava da ala destra, come quell'altro Rossi, di nome Renzo, che fu scambiato da Giancarlo Beltrami, per quello vero.

La gioventù fu bella, piacevole, ma le gambe non reggevano il fisico, i menischi saltarono via come chiodi spezzati, Paolo cominciò a soffrire ma capì che i dolori andavano superati con i sacrifici, gli allenamenti. Prese a girare per varie squadre, lo presero al Como, nella squadra del lago giocò sei partite prima di traslocare al Lanerossi Vicenza. Qui trovò un secondo padre, era Giambattista Fabbri che raccontava della pesca alle sarde e mostrava quanto fossero grandi, allargando le braccia e, in contemporanea, illustrava lo schema di gioco, Paolo fintava di andare a sinistra e poi dirottava a destra, gol. Detto così era facile, come pescare la sarda. Infatti fu facilissimo, Rossi abbandonò il ruolo di ala per essere centravanti, giorni e mesi fantastici, capocannoniere in B e poi la A e poi, a ventidue anni, nemmeno compiuti, la nazionale al mondiale argentino. L'estate fu clamorosa, la compartecipazione tra Vicenza e Juventus si concluse con l'apertura delle buste, Boniperti fece il furbo tenendosi basso, Farina scrisse due miliardi e seicentododici milioni, scandalo, dimissioni del presidente federale Carraro ma Farina, abile cacciatore, espose il suo trofeo: «Paolo è la Gioconda del nostro calcio».

Venne l'affitto al Perugia e qui l'inferno delle scommesse clandestine, Paolo evitò il gabbio ma fu condannato a due anni di squalifica, fuori dal football, fuori dalla nazionale, fuori dall'europeo. Fu l'inizio di una confinamento psicologico che cambiò il suo rapporto con il calcio. Pagò la colpa, se colpa ci fu, tornò dalla vergogna, non la eliminò dentro di sé, continuò ad amare il pallone ma filtrando la passione, vivendolo come uno sport senza l'enfasi e i tormenti che lo accompagnano da sempre. Ha vinto scudetti, coppe, titoli mondiali, il pallone d'oro, è passato al Milan, poi al Verona per arrendersi all'età ancora fresca di anni trentuno ma con le gambe di un vecchio. Ha proseguito la sua esistenza con un nuovo amore con altri figli, con il piacere della campagna, di uliveti e di vigneti, memoria antica dei suoi genitori e nonni. La sua dignità è stata confortata dal silenzio, mai una provocazione, mai un insulto, mai un rimprovero anche a chi gli massacrava il corpo. Arrivò al mondiale di Spagna come un bambolotto sgonfio, sembrava non reggersi in piedi come si deve a un atleta, non aveva il ritmo dei suoi compagni, sbuffava Ciccio generoso Graziani, scalpitava Spillo Altobelli, le prime tre partite furono uno strazio ma Bearzot non era soltanto un allenatore. Gli azzurri si chiusero in casa, decisero di respingere, con i silenzio stampa, gli attacchi, anche feroci, che arrivavano da ogni parte, addirittura dal presidente della lega professionisti, Antonio Matarrese, che dopo un'amichevole a Braga, vomitò parole forti: «Fosse per me li prenderei tutti a calci in culo». Il Vecio era come il ragionier Tisi di Villar Perosa, capì che bisognasse avere pazienza, Paolo lo avrebbe ringraziato. Fu il miracolo improvviso, fu suo il mondiale, fu sua la voce piccola che urlò sei volte gol, fu il signor Rossi, un cognome qualunque, celebrato hombre del partido, fu il sogno che diventò realtà nel teatro del Bernabeu, Sandro Pertini guardava gli azzurri mentre di fianco Juan Carlos e Kohl, straniti da tanta euforia di tricolori, chiedevano informazioni, Paolo fu chiamato Pablito ma restò l'italiano più italiano di tutti gli altri, un ragazzo normale, non un fuoriclasse, non un fenomeno, non un protagonista assoluto. Era rimasto quello di Santa Lucia, era sempre quello che fumava al secondo piano del dopolavoro di Villar Perosa.

Era quello che fintava a sinistra e scattava a destra, era il ragazzo che ha scelto il silenzio della notte per fuggire a questa vita che era diventata cattiva. Ha cercato l'ultimo dribbling, Paolo. Sua moglie ci ha regalato l'immagine più dolce e serena, Paolo ha salutato con un sorriso. Prima di trovare il buio. Ma ci ha lasciato una luce. Fortissima.

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