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Gli opposti in panchina Luis Enrique lo "stordito" e Mancini è un "vate"

Lo spagnolo nel mirino come ai tempi di Roma. L'italiano osannato non è più il ciuffo ribelle

Gli opposti in panchina Luis Enrique lo "stordito" e Mancini è un "vate"

Lo Stordito e il Vate adesso se la vedranno fra loro. E vinca il migliore. Che poi, in Italia, tutti sperano sia il Vate. Lo Stordito era l'ultimo appellativo recapitato a Roma, e dai romanisti, a Luis Enrique Martinez Garcia, nome più corto del prestigioso curriculum da vincente, ma poco importava: a Roma non funzionava. E dopo un anno Luis Enrique ha salutato la compagnia a caccia di miglior fortuna. Almeno nel calcio, quella c'è stata. Non altrettanto nella vita: martorizzato dal dramma di Xana, la sua bambina morta a 9 anni per cancro alle ossa. E quando Luis Enrique ha detto ai suoi giocatori «Se io posso guardare avanti, tutti possono guardare avanti», capirete che non ci potrà essere critica, cattiveria o ironia che vada a scalfirlo. Nemmeno ora che sembra un comandante in un mare tempestoso. La Spagna non è bellissima, però con stellone e qualità fa risultati. La definiremmo: cinica. Stile vecchia Italia calcistica: una insolenza per la cultura spagnola.

Ma questo Europeo è diventato divertente e insolente, provocatorio e innovativo per lo scambio delle parti. Luis Enrique, un vincente predestinato, che si prende qualche ceffone e Roberto Mancini, che non è mai stato Vate, ormai viene ascoltato come il prete in Chiesa. Le ultime partite hanno stordito anche i più accesi accusatori: gioca con i cambi e vince con l'Austria, con il Belgio ripresenta giocatori che avevano lasciato dubbi sulle scelte e quelli mettono al silenzio. Silenzio, appunto: parla Mancini. Macchè! L'altra sera, con l'adrenalina in corpo, è toccato a lui mettere tranquillo un giornalista che conosce da una vita. «Stai calmo, mancano due partite». Conoscere il pallone e il proprio mondo aiuta a non cadere nei tranelli del Sei bellissima! titolato per la nazionale.

Mancini, in altri tempi, si è visto rivoltare contro di tutto. Valga, ad esempio, il primo addio all'Inter. E sulle spalle si porta la sacca dello scritto e detto: inseguito da mille etichette e dalla fama del ciuffo ribelle, delizia per gli esteti da giocatore, sponsorizzato speciale ai tempi delle prime panchine, allenatore poco spettacolare e costoso visto che chiedeva investimenti ingenti. Lui vedeva dove l'occhio di altri non arrivava (idea simil Boskov tradotta per la panchina). E forse nessuno aveva intuito che affidargli la nazionale era mandarlo a nozze (calcistiche, sul resto ha provveduto da solo) per il talento nel valutare giocatori: costano nulla e lo fanno felice nella varietà di scelta. Il paragone più enfatico, se non azzardato, dice che l'Italia se la gioca in Europa con Draghi e Mancini, ciascuno a modo suo fa tendenza. Oggi Mancio con il suo calcio può dire ciò che vuole. Perfino i francesi si sono inchinati. L'Equipe, il quotidiano sportivo, ha titolato: Lezione d'italiano. Ma stavolta è il calcio che fa lezione: nel 2015 Mancini chiudeva la seconda storia all'Inter con qualche malumore, Luis Enrique conquistava il prestigioso Triplete con Barcellona: da leggenda. Eppur ora Mancini è un vate. E Luis Enrique lo stordito dell'antica Roma.

Salvo ghiribizzi del pallone.

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