Ci dev'essere la mano di Renzi. Anche qui, anche al Giro. E comunque quelli della carovana rosa devono essersi radunati ogni tanto alla Leopolda. Non si spiega altrimenti questo vento fortissimo di rinnovamento, tutto assieme, tutto all'improvviso. In attesa di vedere se è una buona o una cattiva notizia, la rottamazione investe tutti i settori. È fatica tenerle dietro. Cambia prima di tutto il Giro stesso, in quanto percorso, in quanto ciclodromo per la lunga sfida di maggio. Bandito completamente ogni afflato estetico, spazzata via qualsiasi velleità storico-culturale: da anni e anni il Giro non toccava tante località secondarie e semisconosciute, da anni e anni non rinunciava così platealmente a un filo logico ideale. Certo ci sono eccezioni, vedi la cronometro alcolica tra Barbaresco e Barolo. Ma nel complesso si viaggia volutamente dentro la pista ristretta della corsa ciclistica, l'attenzione unicamente rivolta agli aspetti tecnici della gara.
Ma anche qui il cambiamento è radicale: rottamata brutalmente, senza rimpianti, l'idea lanciata anni fa nello slogan planetario della "Corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo". Niente, non esiste più niente di quella intelligente scelta, che davvero isolava il Giro dal resto del mondo, mettendolo sul piedestallo, massima prova di forza e di resistenza che nessun campione avrebbe potuto evitare in carriera, per non correre il rischio d'essere ricordato solo come un mezzo campione. Niente, la grande bellezza e la grande durezza, tutto nel cassonetto. Oggi la corsa più dura del mondo sta da qualche altra parte (secondo me, la Vuelta), qui va in scena una rimasticatura dei classici Tour: due settimane facili e sonnolente, tre tapponi a decidere tutto nell'ultima settimana. Con una differenza neppure tanto ridicola: il Giro imita il Tour proprio mentre il Tour, lentamente, sta cercando di imitare il Giro, quello vecchio, quello vero, quello feroce. Ma c'è poco da discutere: dicono gli organizzatori che se propongono un Giro troppo duro poi non ci viene nessuno. Difatti: questo è light e il nome più chic è quello di Quintana.
Ma non fa nulla, c'è una nuova febbre in Giro: bisogna cambiare, bisogna rinnovare, bisogna ringiovanire. Renzi patron. Attesissimo il cambio di generazione anche dentro lo stesso gruppo, dove il nuovo che avanza deve prima o poi decidersi ad avanzare, soprattutto tra gli italiani (vieni avanti, Aru), perché altrimenti siamo sempre qui appesi agli eroi di un altro tempo, i Basso e gli Scarponi, i Cunego e i Paolini, per non parlare di Petacchi 2, già ritirato e poi ritornato, quarant'anni ben portati come il tizio dell'olio Cuore. Ma è ugualissimo il leit-motiv anche nel parco favoriti, dove c'è la curiosità di vedere cosa s'inventeranno i babbioni della vecchia guardia (Evans e Rodriguez) per arrestare la travolgente onda verde dei Quintana, degli Uran, dei Martin.
E perché non si dica che la Rai non è lo specchio fedele della realtà, sempre pronta a intercettare i profondi cambiamenti in atto, ecco la televisione del servizio pubblico adeguarsi immediatamente al clima generale di novità. Sostituzione necessaria quella di Davide Cassani, diventato cittì della nazionale: al suo posto di opinionista in diretta ci va Silvio Bello Martinello. Ma poi ci sono i rottamati veri: il grande grosso capo Auro Bulbarelli e il motocommentatore Paolo Savoldelli.
Sostituito il capo con la promozione interna di Alessandro Fabretti, viva curiosità, in inverno, per conoscere i criteri con cui la Rai avrebbe selezionato le nuove voci. Tutti si sono immaginati chissà quali i requisiti richiesti per l'ingaggio. Un rompicapo. Alla fine, visti i prescelti, io ho trovato un solo criterio plausibile di scelta: la rima. Sì, nel Dream Team si entra per fare rima. Via Bulbarelli e Savoldelli, dentro Lelli e Garzelli. Il primo in moto, il secondo incravattato sul palco.
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