di Vittorio MacioceN on è arrogante, è Johan Cruijff. Questa è la storia del figlio di un fruttivendolo rimasto orfano troppo in fretta. È il romanzo di un genio che per tutta la sua vita ha inseguito la perfezione, come capita solo a chi porta il suo talento ai limiti estremi della ragione, con l'idea di scomporre e ricomporre il campo di gioco. Non è arrogante dire che Cruijff sta alla storia del football come Michelangelo sta all'arte e Beethoven alla musica. Quello che li accomuna è l'ossessione di governare il tempo e lo spazio, di riscriverli, cambiando completamente le coordinate rispetto al passato, con la freddezza burbera di chi sa che sta ridisegnando un mondo, fino a sfidare Dio. Non è presunzione. È amore. È l'orgoglio degli uomini che cercano di svelare l'invisibile, di rubare il segreto degli immortali. Cruijff in questo senso è stato davvero il profeta del gol, perché ha immaginato una terra promessa. È come Prometeo che ruba il fuoco a Zeus o come il Faust di Goethe, colui che «al cielo chiede le stelle più splendenti, e alla terra le gioie più grandi». E si rivolge al diavolo dandogli del tu. O facendosi dare del lei. Quel Faust che secondo Sombart diventa l'interprete del capitalismo creativo, sostenuto da un tormento che lo porta lontano. Cruijff spezza in due la leggenda del calcio. È con lui che comincia la modernità. Non solo e non tanto per l'interpretazione tattica del calcio totale o per l'arancia meccanica libera dalla dittatura dei ruoli, ma per qualcosa di più profondo, per la scansione del tempo e l'occupazione dello spazio. «Il calcio è semplice: o sei in tempo o sei in ritardo. Quando sei troppo in ritardo, saresti dovuto partire prima». Ma non è solo lo scatto, lo sprint, le gambe. È la testa che fa la differenza. «Avevo sempre due tempi di gioco di vantaggio». È vedere e agire prima, più in fretta, leggere i tempi e le situazioni, rallentare e accelerare. Cruijff sul campo di calcio è sempre artefice del proprio destino. É questa la sua ossessione, la sua mania, controllare tutto per avvicinarsi alla perfezione estetica. E questo costa fatica. «Il talento non fa a pugni con la disciplina». «La pressione si deve esercitare sul pallone non sul giocatore». Tutto questo non significa rinunciare alla fantasia, all'invenzione, al tocco, alla magia. Anzi, la rendi reale, la incarni, la strappi agli dei e la regali agli umani. È il desiderio degli uomini di guardare in faccia gli dei. È una sfida senza fine.Federico Buffa nel racconto da teatro parola che fa di Cruijff sottolinea qualcosa di importante. Il numero 14 non è un ribelle, ma un rivoluzionario. Ed è una sorta di rivoluzione borghese. È istinto libertario senza rivendicazioni sociali. Non ci sono rivincite, c'è uno sguardo perennemente rivolto al futuro.
In un tardo inverno del 1974 allo stadio Bernabeu di Madrid, il Barcellona sfida il Real, orfano del caudillo Franco. Gli azulgrana non vincono lo scudetto dal 1960. Finisce zero a cinque. Cruijff segna tre gol. É la fine simbolica della dittatura. È una porta sbattuta in faccia al passato. Una manita di libertà.La perfezione ragione di una vita giocata in anticipo
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