I tecnici non si sono mai messi d'accordo sul suo reale valore tecnico, ma una cosa è certa: quella notte dell'11 febbraio 1990 James Buster Douglas ha lasciato attonito il mondo del pugilato, riuscendo nell'impresa di addomesticare il vero cattivo del ring, quel Mike Tyson allora dominatore imbattuto della categoria dei pesi massimi. Oggi sono trent'anni da quel match indimenticabile.
Che effetto le fa essere ancora oggi il protagonista di una delle più grandi sorprese della storia dello sport?
«Significa molto per me, davvero. È stata una notte indimenticabile, uno dei momenti più belli della mia vita, un sogno realizzato, ma anche qualcosa che sapevo di essere capace di fare».
Facciamo un salto indietro nel tempo e partiamo dalla conferenza stampa pre-match. Che ricordi ha?
«Ero sorpreso, stupito, incredulo, perché la conferenza stampa si è svolta in due momenti diversi. Prima si è tenuta quella di Mike e c'era la sala piena di giornalisti. Era tutto un Mike, Mike, come stai, con anche domande banali del tipo: di che colore saranno i pantaloncini che indosserai nel match? Poi quando è toccato a me, c'erano giusto quattro persone, tanto che le sedie erano girate dall'altra parte».
Una sua vittoria contro Mike era quotata 42 a 1.
«Sì, è vero. Lo ricordo bene. La maggior parte dei casinò di Las Vegas si era persino rifiutata di accettare nuove puntate sul nostro incontro, perché certi che Tyson mi avrebbe annientato. Ma io volevo dimostrare a tutti quanti che il match non sarebbe durato 9 secondi o meno, come sostenevano tutti, nessuno escluso».
L'avvicinamento al match, tutt'altro che semplice.
«Sì, ho perso la mia adorata mamma proprio in quelle settimane. Era malata, ma ha avuto la forza di venire a casa mia perché sapeva che in quel momento stavo attraversando un periodo non facile per via della separazione con mia moglie. Lei è stata la mia forza, era fiduciosa che fossi pronto per combattere, che avrei battuto Mike. Ha creduto in me. Mi ha insegnato ad essere più forte e a credere di più in me stesso».
Si dice che Tyson non fosse in forma, mentre lei sì. È stata questa la chiave del suo successo?
«È una str..., Mike era in forma perché altrimenti non avrebbe potuto schivare o resistere a quei colpi, a girarmi attorno. La verità è che non ha mai accettato quella sconfitta, si lamentava e piangeva come un bimbo nella culla. Ci siamo rivisti qualche anno fa, ma non abbiamo parlato molto».
Pronti, via e nelle prime riprese lei affrontò il suo avversario a viso aperto.
«Col passare dei round miglioravo, acquistavo fiducia, tanto che a un certo punto l'ho fissato con lo sguardo, come a dirgli: come ti sembro adesso? Ti piaccio adesso? Sono forte abbastanza per te?».
Ci parli delle riprese centrali.
«Con il jab cercavo di tenerlo lontano, per evitare il corpo a corpo, il suo punto forte. Stavo assestando dei buoni colpi, i miei migliori, uno di questi lo ha anche segnato all'occhio sinistro, ma anche lui rispondeva colpo su colpo. Poi ad un tratto...».
Ad un tratto?
«Quando meno me lo aspettavo, a meno di dieci secondi dal termine dell'ottava ripresa, Mike mi ha sorpreso con un montante destro che mi ha mandato al tappeto. Ero cosciente e dunque è per questo che ho aspettato qualche secondo prima di tirarmi su».
Dopo una nona ripresa di fuoco, la decima è stata l'apoteosi.
«Ho colpito Mike con un duro montante alla testa, seguito da una raffica di altri quattro pugni che lo hanno messo ko per la prima volta in carriera».
Qual è stato il primo pensiero a fine match?
«Ho pensato a mia madre e sono scoppiato a piangere. Quando ho sentito la folla invocare il mio nome e sentito lo speaker annunciare che ero il nuovo campione del mondo, avevo perso la facoltà di parola».
Da quel momento, è iniziata una sorta di spirale negativa dalla quale ha fatto fatica ad uscire.
«Sì, è stato un periodo davvero difficile per me dopo il match con Mike. La protesta di Don King, che ha contestato la mia vittoria lamentando che il conteggio dell'arbitro era stato più lento nei miei confronti rispetto a quello di Tyson, mi ha obbligato a viaggiare per l'America da un tribunale all'altro, per riprendermi quello che era mio di diritto, rovinando in ogni caso quello che è stato il più grande successo della mia vita e impedendomi di preparare al meglio la difesa del titolo contro Holyfield. Dopo aver perso con Evander perché depresso e in sovrappeso, sono finito in coma diabetico e sono quasi morto. La vita, che è decisamente più dura di una lotta contro Tyson, per fortuna mi ha regalato una seconda chance. Non posso più sbagliare».
Se Tyson coltiva marijuana in un ranch in California, lei cosa fa nella sua vita?
«Il maestro di pugilato.
Nella palestra della mia Columbus, in Ohio, alleno giovani aspiranti pugili. Tra questi, ci sono pure i miei figli Artie e Kevin, che lavorano sodo e hanno del potenziale per diventare qualcuno. Qualcuno come Manny Pacquiao, che reputo ora il migliore di tutti».
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