Rafael Leao, se il trofeo è la famiglia

L’asso portoghese del Milan ha conquistato molto più del premio di giocatore dell’anno al Gran Galà del calcio nostrano: è arrivato davanti ai flash abbracciato a chi l’ha sempre sostenuto

Leao sul red carpet con i genitori
Leao sul red carpet con i genitori

Mignolo e pollice si allargano, le altre nocche si chiudono, la mano accarezza l’orecchio. Rafael Leao esulta ogni volta così dopo aver infilzato un portiere, con quella telefonata che assurge a racconto in diretta del gesto tecnico. Dall’altro capo di questa metaforica cornetta siede paziente la mamma, una donna dallo sguardo benevolo che comunque ha continuato a fare la parrucchiera anche quando il figlio ha iniziato a macinare gloria e milioni. Il rito è ricorrente: la chiama dopo ogni partita, per raccontarle tutto. Lei assorbe quel diluvio di gioia, balsamo che lenisce i sacrifici di un tempo. Con papà è diverso: lui non è il tipo che si perde in chiacchiere. Impiegato statale, pragmatico fino al midollo, misura l’ascolto e declina le parole in un senso soltanto. Fare sempre la cosa giusta.

Mica facile, ma con due genitori così un po’ di più. In molti ieri sera si sono sfregati gli occhi: un campione del suo calibro che si presenta al Gran Galà del calcio nostrano affiancato dai genitori non è una di quelle cose che ti passano sotto gli occhi tutti i giorni. Una spremuta di sentimenti in mondovisione, ma non per vanagloria. Oltre gli smisurati mezzi tecnici, più della stazza che gli consente di risultare dominante, Rafael trae la sua forza interiore da una fonte che zampilla incessante. Perché i suoi, per lui, ci sono sempre stati.

Ad Almada, nel distretto di Setúbal, la sera ci mette un sacco a srotolarsi. La luce che arriva dall’oceano si spalma placida su quelle case candide dai bordi smussati, alimentando sensazioni ossimoriche. Sentirsi invisibili è facilissimo, anche dentro un posto così illuminato. Antonio, il papà di Rafa, se ne stava ogni notte con la testa raccolta nei gomiti, mentre osservava il figlio che si assopiva gradualmente. Non c’era tempo per riposare. Doveva riflettere su come andare avanti dignitosamente. Non erano poveri, ma non stavano nemmeno bene. Abitavano in una zona modesta, dentro ad un palazzone che spuntava dal nulla, non lontano da dove erano nati Luis Figo e José Mourinho. Da quelle parti più che lo iodio inali calcio.

La mattina Antonio faceva salire Rafael in treno, per portarlo al campo d’allenamento. Sudava freddo ogni volta, perché non aveva i soldi per pagare tutti quei biglietti. Così si spostavano di carrozza in carrozza, dribblando il controllore di turno. Lui e la mamma lo hanno sempre sostenuto: prima lo studio, certo, ma il buon senso suggeriva che quel ragazzino avesse un destino inciso altrove. I primi calci da piccolo, lo Sporting Lisbona, il Lille e poi il Milan. Sono cambiate le casacche. Esplosi i muscoli e affinato il talento. Loro però sono sempre stati sul sedile passeggero, a contemplare il percorso, a suggerirne le svolte.

Così non c’è stato proprio nulla di singolare ieri sera. Mamma indossava una abbacinante mise sui toni del giallo, mentre papà un sobrio abito grigio.

Lui, eletto miglior giocatore della Serie A, ha strofinato il suo riconoscimento, ha sfoderato un sorriso ed ha dedicato il tutto a chi l’ha fatto venire al mondo. È quasi certo che da qui in avanti arriverà ancora primo in molte altre cose. Il premio più grande però c’è l’ha sempre avuto intorno.

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