Non è un profeta. Non è un professore. Non è speciale. È Carlo Erminio Ancelotti, basta e avanza per scrivere la storia sua e del calcio europeo, quello vero, quello pesante, Milano, Londra, Parigi, Monaco di Baviera, Madrid. Che altro? Tutto, il football riassunto in cinque città, cinque club, la traiettoria di un ragazzo diventato uomo e, a pensare bene, un uomo rimasto ragazzo. Ha masticato più chewing gum lui di tutti i teddy boys dei favolosi anni Cinquanta che sono gli anni della sua nascita, quando a Reggiolo osservava suo padre, Giuseppe, mezzadro, curvo nella schiena, la mani rigate di fatica a curare la terra del padrone, mais, grano e vigna e dieci vacche da latte e altro bestiame che affollava l'aia, le stalle e, nella rimessa, stava parcheggiato, si fa per dire, un Fiat 21 cavalli, il trattore che ti cambiava la vita.
Carlo Erminio, secondo nome in omaggio del nonno, come si usava nelle sacre famiglie nostrane senza immaginare i doppi cognomi contemporanei, andava in bicicletta, per tratturi e borghi, non pensava al pallone, c'era la scuola, non benissimo, c'erano gli amici, avrebbe voluto fare agraria ma Giuseppe lo mandò ad elettronica, il diploma relativo è un altro titulo però mai celebrato. Tifava per l'Inter e per Boninsegna, in verità il suo idolo si chiamava e si chiama Ghiozzi Eugenio, nel senso di Gene Gnocchi, un altro della bassa, con piedi raffinatissimi e ritmo da controra. Venne poi il calcio, la carriera principiò proprio all'Inter dove lo misero a dieta al punto che Carlino non toccò palla oltre al cibo. Quindi la Roma, il Milan, tutto il resto in campo e poi da allenatore, amato dovunque tranne dalla ciurma juventina che lo definì un maiale per accettare poi vere porcate ma di altri personaggi; storia forte, dunque, risultati grandiosi, ricordo il suo debutto in nazionale al mundialito uruguagio, gol all'Olanda nello stadio Centenario di Montevideo. Quel torneo poteva essere l'inizio di una grande avventura azzurra ma il ginocchio andò in frantumi, come gli era accaduto a Reggiolo, allora ad ammaccarsi fu il braccio, andando a sbattere, pedalando, contro un camioncino.
Il resto sta scritto sull'almanacco e nell'argenteria di casa, che sia italiana, spagnola o canadese, Carlo è uomo di mondo pur non frequentando panfili, spiagge e discoteche, vive il benessere, evita il lusso, sa scegliere tra due fette di Parma e tre di Iberico, ama il bollito, ovviamente accompagnato da mostarda cremonese, ama la vita dolce ben differente dalla dolce vita che proprio non gli appartiene. Gli sta di fianco il figlio Davide, allievo e consulente, scolaro attento, già pronto per superare l'esame ultimo per diventare allenatore di prima. Carlo non molla, inarca il sopracciglio se qualcuno osa dargli del buono, ricordo le sue parole secche rivolte a Seedorf che continuava a nicchiare in campo, durante la partita: «Ringrazia che non posso fare altri cambi se no vedevi che fine avresti fatto...». Ma non è uomo da conflitti e contenziosi, rifugge dalle polemiche tipiche ormai di questo spettacolino a bordo campo e nel dopo partita, si fa rispettare da arbitri ed avversari. Madrid vive un'altra fiesta delle sue mille e lui non ha nemmeno il tempo per spassarsela, perché mercoledì nel tempio del Bernabeu arriva Guardiola e con Pep il Manchester City. C'è la semifinale di un torneo che sta al Real Madrid come la musica a Beethoven o a Mozart. Lui, alla casa blanca, ha già portato la Decima, prima che si presentasse Zinedine Zidane per aggiungere gloria. Ora ha voglia di riprendere il discorso, sospeso sei anni fa.
Carlo Erminio Ancelotti non spaccia football, non è un integralista, gli esperti che si abbeverano di sarrismo,
sacchismo, cholismo, guardiolismo non riescono proprio a trovare l'aggettivo giusto per lui. Dinanzi ad un eventuale ed impossibile ancelottismo il figlio di Giuseppe solleverebbe il sopracciglio. E forse non soltanto quello.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.