Hanno strappato una pagina dell'album di figurine. Johan Cruijff è morto. Un cancro ai polmoni si è portato via una fetta grande di storia e di vita del gioco più bello. Cruijff era il football, come Cassius Clay la boxe, come i Beatles la musica leggera, uomini di un'epoca smarrita e non per trappola di nostalgia. Johan Cruijff ha finito di soffrire per il male oscuro che gli aveva sgonfiato i polmoni: «Cerco di vedere la chemioterapia come un'amica. Un'amica che mi può aiutare a stare meglio». L'amica ha lasciato, ieri mattina, la mano di Johan, il figlio di Petronilla e di Germano si è arreso, solo e solitario, accompagnato da Dio che, come lui stesso ripeteva, «Sta con me, ho questa fortuna». Sessantotto anni sono un'età nella quale non si è più giovani e maturi ma nemmeno vecchi e compatiti. È il momento nel quale hai trascorso le prime due settimane di vacanze con un tempo bellissimo, il tempo dei lancieri dell'Ajax e dell'arancia meccanica olandese, gli anni dorati di Barcellona, quelli aspri nelle piccole squadre inglesi, americane, messicane, esibizioni circensi per un eroe alla ricerca di denaro perché le prime due settimane di vacanze erano finite e la terza settimana si preannunciava nuvolosa. Una saetta lo aveva ferito al cuore, un'altra lo aveva demolito, l'infarto gli aveva tolto di bocca il vizio maledetto del tabacco, una, dieci, cento sigarette a tormentare le mani, a ingiallire le dita. Poi, improvvisa e malefica, l'ombra del tumore, la cura pesante, la sofferenza serena, il desiderio di correre ancora più di questo avversario cattivo. Cruijff non lascia soltanto una moglie e tre figli. Lascia il silenzio, il vuoto, un mare che da trasparente e azzurro diventa torbido e tempestoso. Ha giocato un football diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto e che lo hanno poi seguito. La sua arte risiedeva nei piedi e nel cervello: «Giocare a calcio è facile ma giocare un calcio facile è molto difficile». Il numero 14, sulla sua maglietta dell'Ajax e della nazionale, spiazzò i tradizionalisti, poi diventò una leggenda. A Barcellona gli negarono il privilegio, scelse il 9 ma sotto la divisa ufficiale portava una maglia con il 14.
Sapeva calciare di destro e di sinistro, di forza e di eleganza, giocava sul tempo, sull'anticipo, cambiando direzione in corsa. Per capire il fenomeno bastano i primi quattordici secondi della finale mondiale tra Germania e Olanda del 1974: l'arbitro Taylor fischia l'inizio del gioco e dopo dodici secondi Johan Cruijff è nell'area tedesca dove viene atterrato da Hoeness. Rigore di Neeskens 1 a 0. Dodici secondi, nulla, tutto, la didascalia del football di un fuoriclasse. L'Olanda delle cicale perse quel mondiale contro la Germania delle formiche ma tutti ricordano le magliette arancioni, pochi i tedeschi di Germania. Cruijff e i suoi festeggiarono la sconfitta con mogli e amanti che li avevano accompagnati nel torneo, libero amore in libero calcio, la rivoluzione di tutto, barbe, basette, lunghi capelli e birra e alcool e sesso. Johan fumava e correva, fumava e giocava, fumava e studiava football, non soltanto la tattica ma la tecnica, il piacere, l'estetica. È stato lui, da allenatore, a creare il football totale, il tiki taka che oggi imperversa dovunque, come la cucina, sui campi e in televisione, nei commenti di chi non ha mai visto giocare il campione olandese. La sua lezione era semplice: se hai la palla tra i piedi sono gli altri a doversi occupare e preoccupare di te, se hai cinque metri di spazio chiunque può giocare a football ma in quei cinque metri devi sapere che fare e dove andare. È stato lui, prima di Messi, a calciare a due un rigore, è stato lui a disegnare la magica rabona per il cross (in Italia, non lo dico per scherzo, era il colpo migliore di Roccotelli) è stato lui a calzare scarpe da gioco firmate contro lo sponsor ufficiale della squadra. Non aveva il fisico proprio del calciatore, come lo si intendeva al tempo e lo si definisce oggi. Quel viso spigoloso lo faceva assomigliare a una zitella inacidita, la sua corsa nervosa sembrava sempre spinta da un vento privato, il dribbling velenoso e rapido lo portava sempre oltre l'ombra che gli fosse parata davanti. Gianni Brera lo definì il Pelé bianco. Edson Arantes era un puma, Johan un ghepardo. Nel febbraio del Settantotto si giocò al Camp Nou il quarto di finale della coppa del re tra Barcellona e Alaves, in questa squadra faceva il suo esordio Jorge Valdano. Cruijff era il re in campo, agitava le mani su ogni azione, dirigeva lui anche l'arbitro; a un certo punto, mentre l'olandese stava discutendo proprio con l'arbitro, Valdano osò avvicinarsi al campione: «Perché non ti porti il pallone a casa e ce ne lasci un altro, così noi continuiamo la partita in pace?». Cruijff fece una smorfia, poi chiese all'argentino «Quanti anni hai?» e Valdano: «Venti».
Johan chiuse il dialogo: «A vent'anni, quando ci si rivolge a Cruijff, si deve usare il Lei». Conto le coppe, i trofei, i premi, sono un museo. Non ha vinto il mondiale ma è stato un campione mondiale. Non ha vinto un europeo ma è stato il migliore del vecchio continente. Ha vinto in Olanda e in Spagna, ha spiegato ai bambini che il football è un gioco, soltanto un gioco, ha spiegato ai grandi che il calcio è anche sofferenza, sacrificio che deve far venire la pelle d'oca a chi lo gioca e a chi lo osserva ma è soprattutto divertimento. È stato un genio ribelle, ha avuto nemici, moltissimi, in Olanda e in Spagna, è stato bandiera dell'indipendenza catalana, allenando la nazionale di quel territorio, ha conosciuto il mondo e il mondo ha conosciuto Johan. Lo ricordo in una fotografia, era l'estate del Settantatré, indossa la maglietta della Juventus, donatagli da Francesco Morini, dopo la finale di Belgrado persa contro l'Ajax. Ricordo una fotografia di Johan con la maglia del Milan, una esibizione, tre quarti d'ora nel mundialito, era l'estate caldissima dell'Ottantuno, contro i nemici del Feyenoord, Cruijff giocò con una cicatrice sulla coscia, memoria di un perfido strappo al muscolo quadricipite.
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