La rivincita di Klopp allenatore rock star che le canta all'Europa

Ha riportato a Liverpool la Champions come aveva promesso un anno fa dopo il ko col Real

La rivincita di Klopp allenatore rock star che le canta all'Europa

Quando l'anno scorso, subito dopo la finale di Kiev persa contro il Real Madrid, sorridente, sereno, forse un po' alticcio, fu immortalato a cantare che avrebbe riportato la coppa a Liverpool, in molti l'avevano preso per pazzo. L'altra sera dopo la vittoria sul Tottenham, Jurgen Klopp, l'ha fatto di nuovo. Ha cantato. Prima in diretta tv, poi con gli amici, come una anno prima. Questa volta da sobrio. Ma, soprattutto, questa volta con la Coppa tra le mani. Una coppa che è tanto, tanto sua. E che gli ha dato ragione.

Più che un allenatore un'autentica rock star. Istrionico, personaggio, simpatico. Riesce a trascinare tutti con il suo carisma, la sua empatia e la sua rivoluzionaria semplicità. Dice sempre quello che pensa, non è mai banale. Eppure non pretende di dare lezioni a nessuno né di ergersi sopra nessun piedistallo. Spiritoso, a volte buffo. Sempre indossando quella tuta, alla faccia dell'etichetta che altri vorrebbero imporre. Allenatore per caso, «per me come vincere la lotteria» ha detto, quando da discreto giocatore del Magonza verso il viale del tramonto gli fu offerta la possibilità di lasciare il campo e iniziare la carriera in panchina. La gavetta al Magonza, poi il Borussia Dortmund e i primi successi sbattuti in faccia a quel Bayern che sembrava imbattibile, fino alla chiamata del Liverpool dove è stato amore a prima vista. Era il 2015 quando disse: «In quattro anni vinceremo qualcosa di importante». Ha avuto ragione, anche quella volta. Un percorso complicato fatto di lavoro e sacrificio che ha dato i suoi frutti. Ci sono la tecnica e la tattica, perché il suo gioco è estremamente dispendioso, richiede calciatori con spiccate qualità ma poi è lui bravissimo a farle emergere. Basate sul gioco offensivo, il pressing, l'aggressione e il recupero palla, caratteristiche chiave delle sue squadre che, paradossalmente, proprio in finale di Champions si sono viste pochino. Ma che restano punti cardine della sua filosofia.

Maestro nello sdrammatizzare, con ironia e autoironia, ma fermo nei suoi concetti chiave. «Credo che la cosa più importante nel calcio sia far divertire la gente. È solo calcio. Non salviamo vite, non creiamo niente. Se non sappiamo far divertire la gente cosa giochiamo a fare?», ha detto. E i suoi giocatori si divertono con lui. Lo amano, lo stimano, lo rispettano. Per lui farebbero tutto. Basta guardare le immagini dopo il fischio finale contro il Tottenham. Tutti in fila per abbracciarlo mentre lui era impegnato nello sfoggiare una delle sue celebri facce, con quella mimica espressiva così particolare. Abbinata a quelle esultanze e proteste, a volte eccessive, che contribuiscono a renderlo unico. Del resto uno che dice «non voglio essere il migliore. Voglio aiutare la mia squadra ad essere la migliore per battere i migliori» non può essere uno come gli altri. Specie se poi lo fa per davvero.

Aveva una maledizione sulle spalle Klopp. «Ho il record di semifinali vinte...» ha ironizzato prima di Madrid.

Sette finali giocate, 6 perse di cui due di Champions. Prima dell'altra sera, prima del trionfo. «L'anno prossimo la finale sarà a Istanbul. Ho già parlato con la Uefa, saremo lì...». Scherza Jurgen. Ma non troppo. Come dodici mesi fa.

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