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Il rosa ovale non vale

Le ragazze meglio dei maschi: seconde al «6 nazioni» e seste nel ranking mondiale. Però si parla solo di donne del calcio

Il rosa ovale non vale

Altro che lo sport maschio per eccellenza. Il rugby è anche donna, fatto di placcaggi e mischie, mete e colpi proibiti. Una frontiera in espansione, molto più dell'inflazionato calcio al femminile, che con il Mondiale dell'estate scorsa è finito su tutte le prime pagine, lanciando un trend contro giudizi e pregiudizi. Gli stessi, anzi maggiori, che devono combattere le ragazze della palla ovale, da tempo sulla cresta dell'onda, ma lontane dai riflettori, nonostante i successi rispetto alle debacle dei colleghi uomini. E ora tornano in campo, ci sono i test match autunnali: sabato 16 novembre, a L'Aquila, contro il Giappone, poi una settimana dopo trasferta impegnativa a Bedford contro l'Inghilterra. Quello contro le inglesi sarà un tentativo di rivincita dopo la pesante sconfitta all'ultimo Sei Nazioni, dove però le azzurre di Di Giandomenico hanno strabiliato tutti, chiudendo al secondo posto grazie alle vittorie contro Francia, Irlanda e Scozia e al pareggio contro il Galles. Se Parisse e compagni nel ranking mondiale sono solo dodicesimi, dietro perfino alle isole Figi, la selezione femminile è sesta, a un passo dagli Stati Uniti per l'ingresso tra le top cinque.

Per il Sei Nazioni 2020 l'Italdonne giocherà due partite interne, una a Legnano contro la Scozia e l'altra a Padova contro l'Inghilterra. Così come nel calcio è stato sdoganato lo Juventus Stadium e si parla di farlo anche con San Siro, nel rugby si vocifera di un'apertura delle porte dello stadio Olimpico alle ragazze del rugby. Dovrà succedere prima o poi, anche se Maria Cristina Tonna, coordinatrice del settore femminile Fir, a Il Giornale tira il freno: «È un obiettivo, ma a lunga scadenza. Ci vogliono tempi maturi, bisogna crescere ancora, altrimenti un Olimpico vuoto, che rimbomba nel silenzio, non sarebbe uno spot positivo. Poi ci sono tanti interessi in ballo, lo stadio non è di proprietà della Federugby, e per ora vogliamo girare l'Italia, portare il grande evento in stadi più piccoli. Serve un'evoluzione graduale». Bisogna abbattere barriere primarie, quelle sociali e culturali: nel frattempo è caduto il muro della diretta tv, visto che per la prima volta un match dell'Italdonne (con il Giappone) sarà trasmesso in chiaro su Rai Sport: «Bisogna accelerare il processo di accettazione, anche tra le stesse donne, di questa disciplina al femminile - continua la Tonna -, parliamo sempre di ragazze non professioniste, che vestono la maglia azzurra, ma non lo fanno come attività continuativa e costante. Superare lo scoglio ideologico è la prima meta».

Nelle convocazioni del c.t. ci sono i volti nuovi di Cerato e Paganini, proprio per allargare il bacino, attrarre nuove leve. All'orizzonte c'è il Mondiale del 2021 in Nuova Zelanda, le azzurre dovranno conquistare uno degli ultimi cinque posti disponibili attraverso il torneo di qualificazione, previsto a settembre dell'anno prossimo. I pilastri sono quelli del mediano di mischia, Sara Barattin, laureata in Scienze Motorie e istruttrice di sala pesi, ma che con 89 caps vanta il record di presenze con la Nazionale. Ma anche quello del capitano Manuela Furlan, 73 caps, che su Facebook si presenta così: «Orgogliosa trentenne, operaia e rugbista. Lavoro dal lunedì al venerdì, mi alleno tre volte a settimana. La domenica gioco». La prima volta dell'Italia del rugby femminile risale al 1985, a Riccione contro la Francia. Fu zero a zero, senza nemmeno una meta. Quanta strada hanno fatto.

E quanta ne faranno ancora.

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