Rottura sui premi: gli azzurri tornano a casa

L'Italia s'è desta. Ma nel peggiore dei modi. L'Italia del rugby si è svegliata nella bufera per uno scontro senza precedenti tra azzurri e federazione sul mancato accordo per i premi legati al prossimo mondiale inglese. Alla base di tutto, la volontà del presidente federale Gavazzi di non legare il premio al semplice gettone di presenza, ma di subordinarne una parte al rendimento della Nazionale. Sta di fatto che la proposta federale ha scatenato l'attrito, già latente da tempo, tra gli azzurri e la Fir, testimoniato anche da qualche tweet poco simpatico di Parisse e compagni all'indirizzo del presdidente.

Fatto sta che la situazione è improvvisamente precipitata. La Fir ha fatto sapere che gli azzurri non avevano più intenzione di restare in ritiro a Villabassa, in Alto Adige, dove il ct Jacques Brunel sta preparando la spedizione di settembre. I giocatori hanno risposto con un comunicato durissimo dicendo che è stata la federugby a cacciarli dall'albergo dopo che il presidente Gavazzi si era rifiutato di riceverli. Anche questo botta e risposta di comunicati non fa altro che sottolineare un incredibile muro contro muro.

Il tutto a tre mesi dal debutto mondiale contro la Francia e soprattutto appena tre mesi dopo la conclusione di un Sei Nazioni estremamente deludente, in cui l'Italia, fatta salva la vittoria strappata in extremis in Scozia, ha preso schiaffoni da tutti. E forse proprio qui sta la chiave di lettura, perchè gli azzurri evidentemente non si sentono di legare il loro premio agli esiti di un mondiale che si presenta tutt'altro che abbordabile (oltre ai francesi, nel girone abbiamo l'Irlanda e le incognite Canada e Romania). E forse Gavazzi ha voluto sfidarli proprio sotto questo profilo, anche se la vicenda è stata gestita evidentemente male dalla federazione, visti i risultati conseguiti.

A pagare per tutti, alla fine, è proprio il rugby, per una situazione che cancella molta della simpatia che aveva circondato questa nazionale negli ultimi anni.

Un fattaccio che mette a nudo un ambiente che si è nascosto sotto le leggende dello sport esemplare, dell'orgoglio di vestire la maglia azzurra, del «noi non siamo come il calcio», salvo scoprire che dietro questo scontro ci stanno anche i procuratori di molti giocatori che vedono ridursi le loro percentuali. Adesso gli azzurri si giustifichino davanti ai settantamila che li hanno sempre applauditi all'Olimpico di Roma anche dopo le sconfitte più tremende. Non basta più cantare l'Inno di Mameli.

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