Una sgassata e via. Rombo di motore che non è rullio di tamburi. Più Elvis Presley sulla moto rombante, che Marlon Brando sul tappeto rosso di Hollywood. Entro e tiro, entro e segno, entro e vi faccio vedere io. Da mela marcia a mela di marca il passo è breve: basta un gol, anzi due, per fare festa. Venticinque minuti per trasformarsi, aprire le braccia in un insolito gesto di soddisfazione e regalare perfino un sorriso. Così Supermario ha riannodato il dialogo col calcio italiano. Così è riapparso a San Siro. Occhi bassi, passo dinoccolato da bulletto imperturbabile. Ma poi quel focherello sotto traccia è diventato felice fiammeggiare. Ehi, ragazzi, sono tornato. Guardatemi! Trentacinque secondi di partita per raccontarci: guardate non sono cambiato! Tiro. Booom! Palla schizzata via, di un niente dal palo. Nel caso qualcuno avesse dimenticato. Luci a San Siro ieri sera erano i riflettori che guardavano giù per scoprire l'anima di quel numero 45. Era un occhio alle stelle, ma all'incontrario. E Balotelli bad boy avrà pure ringraziato: nel giorno in cui Man City e Inter se la sono passata male, lui sul prato a raccogliere atti di fede dai 35mila spettatori, non una marea.
Sì, ieri sera le stelle gli hanno voluto bene, offrendogli anche un rigore all'ultimo minuto realizzato con un classico delle sue esecuzioni. «Fare gol è sempre una bella emozione per un attaccante, però devo continuare a fare gol» dirà a fine partita. E anche la luna l'ha guardato con occhio benevolo: quella luna sua che ha luccicato sopra San Siro come non si fosse mai spento il sole di un maggio, quando segnò l'ultimo gol al Chievo.
Why always me?, forse Mario avrà regalato quella maglietta mostrata con indispettito orgoglio agli inglesi. L'avrà regalata al povero superPaz, in arte Giampy Pazzini. SuperMario è stato uno sberleffo al suo Io di cannoniere un po' snobbato. Prima gli dicono che non sarà comprato altro centravanti e invece
. Poi, mentre sgambetta nel riscaldamento a San Siro, il muscolo della gamba comincia a strillare. E l'altro deve togliersi la tuta. E lui sedersi in tribuna. Quale sceneggiatore non l'avrebbe pensata meglio. L'esordio di Balotelli serviva così, avvolto nei colpi di scena: come il suo acquisto.
Milan subito a tre creste, come voleva il cuore di popolo. E magari l'idea pubblicitaria che un giorno ci racconterà qualcosa. Poi subito il tiro in porta che fa sobbalzare dalla sedia, e ancora il gol con quel pizzico di fortuna che segnala la benevolenza della Signora e, ancora, il solito pezzo di repertorio che SuperMario cava dal piedone destro: uno sberlone da distanza di cannone che i portieri riescono a malapena a schiaffeggiare. Se riescono. Padelli ce l'ha fatta, ma il tifo generoso di San Siro si è aperto all'ohhhh! di meraviglia. Cos'altro chiedere? Quel calcio molto single nelle voglie e molto simbolo negli effetti. Lui che calcia, gli altri che corrono, El Shaarawy che se ne sta nel cantuccio del coprotagonista lasciando all'altro la luce. E Niang, agonista e spalla, intuitivo nel giocarsela da gemello.
E così sembra più Milan(ista) questo Balotelli rispetto a quell'altro sceso dal pullman con le cuffie bianche, allineato dietro El Shaarawy come seguisse una guardia del corpo, capo chino per evitare scocciatori e con l'interesse per quel piccolo grande mondo pari a quello di un collezionista di farfalle per uno sciame di formiche. Si, sempre lui: fiero e segreto, inavvicinabile e scostante, forse bravo ragazzo ma con l'aria del bad boy.
Chissà avrà pur ragione Maroni, il tifoso, non il politico, che ha raccontato il classico di sempre: «Il Milan sa raddrizzare i cavalli di razza». Salvo pensare alla fuga di Cassano, rattoppato ma non raddrizzato. Lontani i cori dal senso lugubre, vago razzistico, ascoltati nel pomeriggio allo stadio di Verona: bigliettino di benvenuto dei tifosi juventini. Tanto da far risentire a tutti noi quel Why always me? da recitare ai detrattori d'Italia. Supermario non è un santo, al massimo è diventato un diavolo. Ma «perché sempre io?». Spiegateglielo.
Ieri Balotelli è rientrato a San Siro, verde diverso il campo, rispetto all'ultima volta (maggio 2010) che l'ha toccato, calpestato, forse odiato, verde diverso il colore della sua età.
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