
Quello sguardo di intesa, fino alla fine, con la figlia Nathalie; una figlia ritrovata tardi e, forse, anche per questo, ancora più amata. Fu proprio grazie alla «mediazione» di Nathalie che Nino Benvenuti, nel giorno dell'86esimo compleanno (il 26 aprile dello scorso anno), ci concesse l'onore di affidare al Giornale una sorta di testamento spirituale. Intenso e romantico. Com'erano i suoi pugni da campione. Da allora Nino non ha più rilasciato dichiarazioni ai media, del resto già in quel compleanno non stava bene, poi le cose sono peggiorate e ieri il più grande boxeur italiano ci ha detto addio; pur rimanendo presente nei cuori e negli occhi di chi ha avuto la fortuna di essere testimone della sua epopea. Che ha coinciso forse con quella della migliore Italia.
«Dopo un'esistenza sul ring, continuo a prendere a pugni la vita. Sto bene, ma quando arriverà l`ultimo round sarò pronto. È inevitabile. Attendo senza paura...», aveva confessato. Insieme col suo ultimo desiderio: «Quando arriverà l'ora, vorrei che le mie ceneri fossero sparse dallo scoglio di Isola d'Istria dove ho imparato a nuotare da bimbo. E così potrò ricongiungermi per sempre con mia moglie Nadia». L'«ora» è arrivata; e oggi immaginiamo Nino che abbraccia su un ring di nuvole tre dei suoi mitici rivali - Emile Griffith, Carlos Manzon e Sandro Mazzinghi - tutti diventati poi amici, perché di Benvenuti non potevi che diventare anche dopo esserti preso a pugni senza esclusione di colpi: eccetto i colpi bassi, quelli Nino non li ha mai tirati a nessuno, sul ring come nella vita.
Monzon? «L'unico a battermi due volte. Dopo la seconda, chiusi con la boxe. Ma meritava il mio rispetto. Andai al suo funerale. E accarezzai la bara». Mazzinghi? «Siamo stati il Coppi e il Bartali del pugilato. Tra noi, qualche incomprensione di troppo. Ma quando sono stato male, lui ha chiesto notizie di me. Alle sue esequie ho versato lacrime sincere». Con Griffith il legame più commuovente, quando Emile si ritrovò solo, povero e malato: «Con lui mi sono battuto tre volte, stargli vicino nel momento del bisogno mi ha insegnato tanto».
Da istriano esule aveva profonde cicatrici nell'anima: «La famiglia fu deportata. L`incubo delle foibe ancora oggi mi assale di notte... Rivedo mio fratello preso dalla polizia titina e portato via. Le lacrime di mia madre. Poi, il suo ritorno a casa. Era uno scheletro».
Lui, Nino, salvato dal pugilato e strenuo difensore della nobile arte: «Sono cresciuto grazie ai valori
rincorsi sul ring, il mio habitat naturale dove mi sono forgiato, capendo che i risultati arrivano solo con impegno e sacrificio. La boxe non è violenza, ma esercizio di lealtà umana e sportiva. Andrebbe insegnata nelle scuole».
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