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Super Bowl, spente le luci dello show. Fari accesi sui ritiri precoci da malattia

Ci sono sempre più giocatori dicono basta prima dei trent'anni Lo studio: encefalopatia traumatica rivelata in 110 giocatori su 111

Super Bowl, spente le luci dello show. Fari accesi sui ritiri precoci da malattia

Spente le luci, sbaraccata la scena con la solita sconvolgente velocità, quella per cui il pomeriggio successivo alla partita quasi non ti accorgi che in città c'è stato un carnevale lungo una settimana, il Super Bowl si mette alle spalle l'edizione numero 54, o LIV. Hanno vinto i Kansas City Chiefs e, pare, Jennifer Lopez e un po' meno Shakira, protagoniste dello spettacolo all'intervallo, mentre chi ha perso, i San Francisco 49ers, si lecca le ferite. Letteralmente, o quasi.

La stagione Nfl, infatti, con le sue 16 partite di regular season, è lunga, faticosa e dispendiosa da ogni punto di vista: anche per questo dura meno di tutte le altre, cinque mesi dal primo giorno del ritiro al Super Bowl (per chi lo gioca), al contrario degli otto del baseball e dei nove di basket e hockey. Un recente proposta di allungare la stagione, portando da 16 a 17 le gare, è stata accolta con polemiche perché aumenterebbe il rischio per giocatori che raramente si infortunano in maniera grave ma che sono sottoposti a continuo stress e a piccoli guai, tanto che il loro giorno di riposo non è il lunedì, dedicato invece al controllo delle condizioni fisiche presso il centro tecnico, ma il martedì. E a fine stagione c'è, per molti, l'autoanalisi sulle prospettive di carriera.

Ieri ha annunciato il suo ritiro Vernon Davis, eccellente tight end (attaccante), fermo da novembre per un trauma cranico, ma Davis ha 36 anni ed è andato avanti oltre la media dei giocatori Nfl. Molto più effetto aveva avuto, pochi giorni dopo la fine della regular season, l'addio di Luke Kuechly, grande difensore, a soli 28 anni. «Vorrei continuare a giocare, ma non penso che sarebbe la decisione giusta», ha detto. E perché? Non lo ha spiegato in maniera chiarissima ma il motivo è facile da ricostruire: Kuechly nei suoi otto anni di carriera, tutti con i Carolina Panthers, ha subito non meno di tre commozioni cerebrali, frutto degli scontri ad alta velocità ed alta potenza generati dalla sua bravura nel placcaggio degli avversari.

Prima di lui, c'erano stati Calvin Williams (30 anni, nove stagioni), nel 1999 Barry Sanders, un grandissimo giocatore che aveva abbandonato a 31 anni, e recentemente tre ventinovenni come Patrick Willis, il quarterback Andrew Luck e il destinatario preferito dei lanci di Tom Brady, Rob Gronkowski.

Il timore di tutti, non sempre esplicitato, era quello dei danni derivanti dalla somma di traumi e microtraumi, quali l'insorgere della encefalopatia traumatica cronica o CTE, riscontrabile solo post mortem: in uno studio del 2017 sono state trovate tracce della sindrome nel cervello di 110 giocatori su 111, anche se è vero che sono stati esaminati solo gli encefali messi a disposizione da famiglie che avevano avuto sospetti già quando i loro cari erano ancora in vita.

È il motivo per cui Davis aveva sempre tenuto in efficienza quasi ossessiva il proprio corpo: preservarsi il più possibile finchè si giocava, fino al momento in cui ha sentito che non era più il caso.

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