Il tema e una bambina. Giuliani non è più solo come... un portiere

La gloria col Napoli di Maradona, poi isolato dall'ignoranza per l'incubo Aids

Il tema e una bambina. Giuliani non è più solo come... un portiere

La letterina di un bimbo di terza elementare. E il ricordo commosso di una figlia, ormai adulta: la figlia che ogni padre vorrebbe avere. Una letterina e un ricordo.

Sono rispettivamente la stazione di partenza e la stazione di arrivo del libro «Giuliano Giuliani, più solo di un portiere», scritto da Paolo Tomaselli, che racconta il viaggio di questo calciatore durato 38 anni, prima che l'Aids ne contagiasse l'esistenza condannandolo a una damnatio memoriae sportiva e umana di cui sono colpevoli in tanti, più del virus Hiv. Compreso chi avrebbero potuto - dovuto - sostenerlo e invece per opportunismo, meschinità, vigliaccheria ha scaricato Giuliano come un rifiuto. Lui, tra gli artefici dei trionfi del grande Napoli di Maradona. Eppure al suo funerale, tra i big che gli avevano fatto gol ai tempi d'oro della gloria, c'erano solo o Graziani e Altobelli. Gli unici a rivendicare una vera amicizia in un universo popolato da falsi amici. Davanti alla bara di Giuliano, il deserto. Ex società ed ex compagni di squadra assenti ingiustificati. E ingiustificabili. La moglie Raffaella Del Rosario che poi si separò dal portiere rivelò già anni fa che il contagio del marito avvenne alla festa di addio al celibato di Diego in Argentina. Fa quindi ancora più male sapere che, quando Raffaella chiese aiuto a Maradona e Ferlaino per organizzare qualcosa per ricordare Giuliano, la risposta fu il silenzio. Giuliani chi? Mai conosciuto. Troppo imbarazzante quel «sieropositivo», quel «cocainomane», quello «spacciatore» (falsità accreditate da inchieste giudiziarie indecenti e campagne giornalistiche altrettanto indecorose). Uno spettro che faceva paura. Era l'epoca in cui il sieropositivo era l'«untore» e l'Aids la «peste del secolo». Questo nel consesso sociale, figuriamoci nell'ambiente del calcio ancora incatenato a una mentalità medioevale. Giuliani non era un santo, ma non meritava ciò che ha subìto: drammi familiari, faide, incomprensioni, raggiri, tradimenti, inganni. Solo i tifosi di tutte le squadre dove ha giocato lo hanno sempre rispettato. Poi quella maledetta diagnosi, ulteriori infortuni, la voglia di rialzarsi e le tante porte sbattute in faccia che ti fanno ricadere a terra; infine la frase sussurrata a un amico nella tribuna dello stadio di Padova, pochi prima di morire: «Ho freddo...». E la luce che si spegne definitivamente il 14 novembre 1996 su un uomo perbene avvolto dal buio della maldicenza. La lista dei «colpevoli» lunga. Come quella della «cause» che hanno portato a un epilogo tanto crudele. Tomaselli le ha analizzate in 200 pagine con il piglio del documentarista ma anche con l'affetto di quell'ex scolaro (l'artefice della famosa letterina) che all'appello rispondeva proprio al nome di Paolo Tomaselli. «La maestra - racconta l'autore - ci disse: Scrivete una letterina al vostro eroe. Il mio era Giuliani». Eccola dunque la stazione di partenza. Poche frasi, scritte nel 1987 dallo scolaro Tomaselli con la calligrafia tremante delle emozioni che fanno palpitare il cuore dei piccoli: «Caro Giuliani, sono un tuo ammiratore. Anch'io gioco a calcio e copro il tuo stesso ruolo, sarei felicissimo da grande di diventare bravo come te. Tanti saluti da Paolo».

E ora la stazione di arrivo, quella del ricordo della figlia di Giuliani, Gessica.

«Ho scoperto da sola la sua malattia, a diciotto anni, facendo una ricerca per il diploma al liceo linguistico internazionale - racconta nel libro -. Mi avevano sempre detto che era morto per un tumore ai polmoni. E conoscere la verità in quel modo è stato orrendo. In tanti mi hanno raccontato che verso la fine lui voleva stare solo con me, per cercare di vivermi il più possibile. Sentiva che non aveva più molto tempo e mi portava sempre con sé».

È un amarcord fatto di delicatezza e cartoline attaccate all'anima: «Ho il ricordo nitido della casa di Bologna, sulle colline. C'era questa mansarda gigantesca, unicamente per me, con tutti i giochi immaginabili. E poi c'era il cane Rudi, che cresceva al mio fianco. Alla sera non riuscivo ad addormentarmi senza avere la mano di mio padre nella mia. Avevo un bisogno fisico di quella stretta. Mi manca tantissimo. Ancora oggi non prendo sonno se non abbraccio un cuscino a forma di cuore. È il ricordo di lui che mi porto dentro, ancora adesso. Aveva delle mani bellissime».

Non è mai troppo tardi per rimediare ai silenzi, alle piccinerie, del passato.

Le ex squadre di Giuliano organizzino un «Memorial Giuliani». Glielo dobbiamo.

Sulla solitudine del portiere sono stati scritti grattacieli di pagine. Ma Giuliano, disperatamente, è rimasto più solo di un portiere. L'unica poesia, la sua, diventata tragedia.

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