Con la F1 che confonde le idee, dove le auto e le power unit e i kers ed ers e stress ci inducono a credere, pensare, convincerci che il pilota e il fattore umano non contino più nulla, ecco allora che Marc diventa un raggio di sole. Perché è doc, a denominazione di origine controllata, perché è genuino, il ragazzo è tutto talento e sorrisi e ha la forza grande di predicare ciò in cui nessuno crede più: che l'uomo, diamine, conti ancora.
Marquez per la seconda volta di fila in vetta al mondo, a soli 21 anni, alla sua seconda stagione, è il trionfo dello sport sul mezzo meccanico. Fateci caso: nessuno, l'anno scorso come in questa stagione, si è mai permesso di dire «ah, beh, però guida una Honda». E sarebbe stato facile, tanto facile. Allora come adesso. Perché, nel mondo che vive impennato, la Honda altro non è che la Mercedes che domina oggi in F1, la Ferrari che vinceva ai tempi di Schumi, la McLaren di Senna e Prost. Per cui sarebbe stato semplicissimo fare due più due: Marquez gran pilota però che razza di moto guida?
Invece no, questo conticino non è mai stato fatto. Mentre lo si fece per Stoner quando lasciò la Ducati per rientrare dalla porta principale nel team giapponese. E così per Mick Doohan a fine anni Novanta. Grandissimi piloti su grandissima moto.
Con Marc no. C'è in tutti noi e nel pubblico e negli addetti ai lavori la convinzione mista al desiderio che sia proprio così: e cioè che il ragazzo abbia quel qualcosa di magico in più che gli consentirebbe di replicare i successi ottenuti con il colosso nipponico anche fosse sulla Yamaha. Di più: sulla Ducati. Magari non a raffica, magari non con questa disinvoltura, ritrovandosi però a fine stagione comunque lassù in vetta a giocarsi il mondiale.
A voler essere nostalgici, in tempi recenti, ricorda solo un altro pilota: Valentino Rossi. Quando nel 2004 montò in sella alla Yamaha che da anni prendeva solo sberloni e alla prima stagione fu campione del mondo. Quell'anno si pensò che l'uomo potesse essere più importante del mezzo.
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