"Al Tour come un’anatra in uno stagno". Era la sua corsa, la sua vacanza

La "Fiamma rossa": il suo libro d’amore per la Grande Boucle

"Al Tour come un’anatra in uno stagno". Era la sua corsa, la sua vacanza

La “Fiamma rossa” è un triangolino rosso che al Tour segnala dal 1906 gli ultimi mille metri di corsa. Ma è anche uno dei libri più felici di Gianni Mura, un atto d’amore verso uno sport che ha sempre considerato passione, mai lavoro. Dagli Anni Novanta, quando il grande Mario Fossati decise di non seguire più le corse sul campo, Gianni cominciò a frequentare solo e soltanto la Grande Boucle. Era la sua corsa, la sua vacanza di luglio, nella quale poteva soddisfare i suoi sensi. Al Tour si immergeva «come un’anitra in uno stagno», soleva dire divertito. Ha amato la Francia dei poeti e degli chansonniers, ma anche dei tiratardi che giocano a la pétanque. Era un piacere incontrarsi ogni anno nella canicola del Tour, e ancor più bello era trascorrere tempo a parlare di tutto, perché di tutto sapeva parlare. E lo faceva sempre con assoluto garbo, con il piacere del racconto. Mai da maestrino, ma con la leggerezza di chi è quasi imbarazzato di saper così tante cose. Ma aveva anche l’umiltà di chiedere e di informarsi. Soprattutto negli ultimi anni, quando le gambe hanno cominciato a farsi pesanti: passi sempre più corti, come il suo respiro. Chiedeva di quel corridore e di quel direttore sportivo. Voleva capire, soprattutto quando si era fatto un’idea e ne andava a cercare con forto. Poi pennellava reportage unici, pieni di calore e colori. Era un piacere leggerlo, autentici breviari laici di cose ciclistiche. È stato l’ultimo ad arrendersi alla tecnologia, a quei maledetti computer che odiava al pari se non di più dei Mc Donalds. In sala stampa era la firma più prestigiosa e ricercata. La sua fama l’aveva se non preceduto, perlomeno accompagnato in tutti questi anni. Televisioni di tutto il mondo chiedevano un parere, così come i magazine di ogni ordine e tipo gli dedicavano ogni anno servizi ad hoc. Il Tour l’ha sempre considerato un amico, un “frère”, un’eccellenza del giornalismo, non solo di casa nostra. Amava fumare come pochi, e nel momento in cui non è stato più possibile farlo al chiuso delle sale stampa, gli organizzatori hanno cominciato a riservargli una postazione “en plein air”: appena fuori dalla sala. Quante volte l’abbiamo visto all’aria aperta con il suo computer e una sigaretta accesa. Una via l’altra. Come le tappe di un grande Tour. Siamo stati per tanti anni “suiveurs”, al seguito della corsa più bella del mondo, anche se questo termine lo modificò in “précédeur”, perché ormai i corridori non si riusciva più a seguirli, ma al massimo a precedere. Ogni tanto si fermava in qualche borgo, a raccogliere elementi che gli sarebbero serviti per scrivere anche di vini e cucina. In quelle occasioni, arriva puntuale la telefonata: «Mi raccomando, se succede qualcosa di particolare avvertimi, ci si vede dopodomani». Ci legava l’amore per Louis Ocaña, campione assoluto di talento e sfortuna, ma anche per Felice Gimondi. Ricordo la sua telefonata la scorsa estate, la prima in assoluto, che mi chiedeva conferma di una novella tanto triste quanto dolorosa. Ha amato il ciclismo degli Anni Sessanta, ma ha saputo apprezzare e raccontare anche quello scellerato dei Novanta.

Quello di Pantani, che con i suoi scritti aveva contribuito a far amare, anche se ebbe modo di scrivere «per come correva, Pantani sarebbe stato amato indipendentemente dai miei pezzi». Grande Gianni, anche nel non comprendere la propria grandezza. Volata. Traguardo. Dopo la fiamma rossa.

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