Staiti di Cuddia il successo di un perdente

In «Confessione di un fazioso» il ritratto della Prima Repubblica

Si intitola Confessione di un fazioso (Mursia, 259 pagine, 16 euro) l’autobiografia di Tomaso Staiti di Cuddia, ma si tratta di un titolo che non rende giustizia al suo autore. La faziosità evoca un che di fideistico, chiuso, sospettoso e un po’ volgare, e se c’è una persona laica, aperta, curiosa ed elegante questa è Staiti. Confessione di un fascista sarebbe stato più pertinente, perché questo è stato ed è Staiti e non c’è nulla di vergognoso o di negativo nel ricordarlo, se Giorgio Napolitano è approdato alla più alta carica dello Stato non in virtù del suo essere divenuto un ex comunista superati i 70 anni, ma dell’essere stato comunista nei 70 precedenti.
Nato nel 1932, Staiti ha tredici anni quando la Seconda guerra mondiale finisce, venti quando l’Italia della ricostruzione comincia il suo cammino verso il miracolo economico, nemmeno trenta quando Federico Fellini gira La dolce vita. Nel film c’è una scena esemplare, la cosiddetta «nobiltà nera» disgustata dal clima capitolino corrotto e pagano, e tuttavia così esangue, stranita e avulsa dalla realtà dall’essere lei stessa l’emblema della decadenza. È una visione felliniana vera e al tempo stesso falsa, perché di quel clima quell’aristocrazia era anche parte integrante, più che dicotomia c’era osmosi. La «dolce vita» fu un fenomeno sociale e di costume di destra, reinventato da un regista di centro sulla base della sceneggiatura di un intellettuale anticomunista.
A scorrere l’indice dei nomi del libro di Staiti si capisce il perché: Marisa Allasio, Cinci Bergamo, Calvo e Pierfranco di Bergolo, Capucine, Linda Christian, Marta Marzotto, Walter Chiari, Chet Baker, Dado Ruspoli... Il milieu in cui il giovane Staiti si muove è questo, buona borghesia, viveurs e nobili, modelle, attrici e attori. Ma com’era possibile che un fascista avesse visibilità e agibilità nell’Italia democratica e antifascista nata con il 25 aprile del 1945? Il fatto è che la teorizzazione ideologica dell’antifascismo prende il via dopo il contestato congresso missino a Genova nel 1960, fa la sua prova generale con l’apertura a sinistra del 1963 e va infine in scena dopo il 1968 quando espulso dall’«arco costituzionale» il «neofascismo» diviene il nemico pubblico numero uno.
Prima c’è un’Italia in cui la vicinanza con i fatti storici avvenuti ne impedisce la mitizzazione da un lato, la ricostruzione di parte dall’altro. Un’Italia che sa di essere stata maggioranza consenziente fascista almeno sino all’entrata in guerra, un’Italia in cui le patenti di liceità politica sono molto difficili da elargire. È insomma un Paese in cui le memorie sono ancora troppo fresche per poterle truccare e nel quale le ragioni dei vincitori ancora non esistono perché in realtà si è perso tutti. Chi si è ritrovato dalla parte vincente è stato più per virtù altrui che per meriti propri.
Allo stesso modo, le ragioni degli sconfitti hanno un loro diritto di cittadinanza e una dignità che le rende possibili, non nel nome di una irrealistica restaurazione, ma nella volontà di una più logica e matura storicizzazione.
Ben scritte, le memorie di Staiti raccontano la giovinezza, scapigliata e mai retorica, di uno nato dalla parte dei vinti, romantico quel tanto che basta a difendere un onore andato perduto, sufficientemente lucido per rendersi conto che non si fa politica con la testa all’indietro. Ciò che viene dopo, la contestazione, gli «anni di piombo», l’imbarbarimento dello scontro generazionale destra-sinistra, l’onda lunga del cosiddetto riflusso che arriva sino al crollo della Prima Repubblica trovano in Staiti, consigliere comunale a Milano nei Settanta, deputato nazionale negli Ottanta, un testimone partecipe quanto disincantato. Le pagine su San Babila e la «maggioranza silenziosa», o sugli scandali Anas, Nomisma, Sme, sono da questo punto di vista esemplari.


Alla fine di questa lunga cavalcata, l’impressione che ne trae il lettore è quella di un politico anomalo, troppo indipendente per essere di parte, troppo bastian contrario per essere di successo, più a suo agio allorché si tratta di assumere in proprio le ragioni di una scelta che non quando tattiche e/o strategie di partito vorrebbero imporgli l’accettazione delle regole del gioco. Soprattutto il ritratto, malinconico ma non triste, di un perdente di successo, di uno che, per usare il bel titolo di un brutto libro di Neruda, può dire di se stesso, senza pentimenti: «Confesso che ho visssuto».

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