La stanza di Mario Cervi

Caro Cervi,
il 150º dell’Unità d’Italia potrebbe essere un’ottima occasione per fortificare quella coscienza nazionale e quel senso dello Stato (da noi merci rare) che in un popolo generano gli anticorpi capaci di affrontare dignitosamente ogni avversità (calamità naturali, guerre, pandemie, dissensi politici, ecc.). Mancando questi valori forti, si diviene a un «tutti contro tutti», allo sciacallaggio.
Ma noto con tristezza che da Bracalini a Del Boca, da Di Fiore a Oneto, si chiede a gran voce «Un Risorgimento più vero e meno retorico», rimestando, more solito, nella «sanguinosa conquista» del Meridione. Eppure negli attuali libri di testo scolastici il Risorgimento non è più narrato (e dico purtroppo) con fanfare e agiografici pennacchi. Oggi il risorgimento (la minuscola rappresenta il suo attuale status) è già spiegato agli studenti come un pasticciaccio di «padroni e massoni» (ovvero borghesi e carbonari), mentre alla sfruttata e sempre santificata massa di operai e contadini non gliene fregava niente dell’Unità nazionale («Franza o Spagna...»). Garibaldi? Un avventuriero senza scrupoli. Cavour? Il primo federalista (vedi Giordano B. Guerri). I Savoia? Massacratori. E via revisionando. Senza contare l’ormai tedioso refrain dei «poveri» Borboni e dei «poveri» briganti, vessati da quei mascalzoni dei Savoia. E il Regno delle Due Sicilie? Ricco, ricchissimo, tutti con la pancia piena, tutti agiati e a ballare la tarantella da mane a sera (ma mi faccia il piacere, direbbe Totò), con un re intelligentissimo che all’inaugurazione della Napoli-Portici disse «Si prosegua per Castellammare» (scordando che mancavano i binari). E Fenestrelle? Oh gesummaria, Fenestrelle! E che sarà mai? Ho visitato lo Spielberg: Fenestrelle al confronto doveva essere un albergo a 4 stelle con colazione in camera.
Per farla breve: si sa benissimo che ogni stato nazionale è nato dal sangue, dalle galere e dalla prevaricazione. Ed è folle giudicare la Storia con il senno di poi. Così fu. Punto e a capo. Vogliamo parlare del Regno Unito che massacrò i suoi stessi figli dopo averli esiliati oltre oceano o delle sue guerre intestine? O degli States con i Pellerossa (pardon, «nativi americani»), o la loro guerra civile? Lasciamo poi perdere quanti ne fece sgozzare la «Liberté, egalité, fraternité» dei francesi. E allora smettiamo una buona volta di autofustigarci. E per quale motivo non si parla mai dei bersaglieri crocifissi vivi alle porte delle chiese in Meridione? O dei briganti (perché briganti erano e tali rimangono: stupratori, ladri, assassini delle loro stesse donne e genti, e non soltanto dei savoiardi invasori), che mozzavano le teste ai fanti piemontesi o quell’altro tipo di gioielli che poi gli infilavano in bocca? Partigiani? (no, grazie, di quelli ne abbiamo già a sufficienza...) O piuttosto già strenui difensori della mafia?
Sa che penso? Se un pizzico, e ribadisco «un pizzico», di retorica può essere benefica per edificare la coscienza nazionale, ben venga. Stendiamole il tappeto rosso. Anzi, fosse per me tornerei ad imporre Cuore e I doveri dell’Uomo fra i banchi di scuola. I vantaggi sarebbero di gran lunga superiori agli svantaggi. Ma, come al solito, i più fervidi anti-italiani albergano fra noi.

E grazie a loro continueremo a essere «una antica dinastia di gente da poco», per dirla come Montanelli.
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