La stanza di Mario Cervi

Gent.mo Dott. Cervi, sul Giornale di martedì 28 dicembre lei risponde alla lettera di Adriano Pelucchi circa la diatriba «mestiere contro pezzo di carta». Il lettore, sicuramente animato dalle migliori intenzioni, scivola clamorosamente nel considerare «un’attività di routine che richiede solo di adoperare, in modo a volte elementare, il computer» quella del commercialista (o dell’avvocato). In qualità di dottore commercialista, appunto, contesto fermamente quanto sostenuto dal lettore che si dimostra, oltre che offensivo nei confronti di chi fa la professione in proprio senza aiuti di sorta e senza nulla di garantito, anche poco preparato. Per esercitare la mia professione, occorre aver conseguito una laurea in Economia e Commercio (o equipollente), aver espletato il tirocinio triennale presso un dottore commercialista iscritto all’Ordine, aver superato l’esame di Stato che abilita alla professione. Dopo si ha la possibilità (non l’obbligo) di esercitare la professione di dottore commercialista, ma non è detto che i clienti accorrano così numerosi come, evidentemente, il lettore ritiene. Il professionista in questione è alle prese continuamente con contabilità da tenere, dichiarazioni da redigere, atti societari e contratti da stipulare, contenziosi tributari da espletare. Il tutto in base a una legislazione rapidamente mutevole.

Quindi di routine non si vede neanche l’ombra e credo non se ne veda neanche negli altri ambiti professionali citati dal lettore. Mi meraviglio di lei che non contesta nei fatti il lettore ma ne accetta in toto le argomentazioni. I professionisti sono lavoratori autonomi, non dipendenti.
Chianciano Terme (Siena)

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