Cultura e Spettacoli

Starlette e veline di un anno rosa shopping

La Avallone che ha sfiorato lo Strega, la Murgia che ha vinto il Campiello, l’esordio-boom della Policastro Questa stagione letteraria è stata dominata dalle donne. Ma non sempre il successo è indice di qualità

Starlette e veline di un anno rosa shopping

Mentre il critico Andrea Cortellessa è in tour con la sua docufiction Senza scrittori, tazebao di pensieri in loop che hanno fatto molto discutere gli intellettuali italiani “impegnati”, quello che forse ci vorrebbe è un vero e proprio film titolato Senza critici. Perché a leggere recensioni, classifiche e cinquine dei Premi letterari la situazione non è delle migliori: trionfano autori blockbuster per lettori istantanei. Non si cerca la profondità ma libri-snack costruiti a tavolino per piacere al grande pubblico. Il segreto? Dare sempre al lettore quello che cerca, non cambiare di una virgola il suo mondo o la sua idea di mondo.

In questo senso, il 2010 è stato, senza dubbio, l’anno della scrittura al femminile. Non della letteratura rosa - Liala ci manca moltissimo e gli Armony ormai latitano anche sulle spiagge - ma di autrici che sono riuscite a imporsi grazie ad un can-can mediatico che non ha precedenti. Su tutti il caso di Silvia Avallone: il suo Acciaio (Rizzoli) ha sbancato classifiche, unito i critici nel considerarlo un capolavoro, vincendo il Premio Campiello Opera Prima e giungendo seconda allo Strega. Il caso più eclatante di un libro studiato a tavolino. È innegabile che il cocktail di socialismo letterario, sballi ravvicinati del terzo tipo, gioventù annegata, sapore di sesso e mare, periferie cementificate e luoghi «para-diso», sia stato vincente. Ma basta leggere davvero il libro per comprendere che nel romanzo lo stile di scrittura cambia, quasi radicalmente, da capitolo a capitolo. Più che un’autrice, la Avallone è una creatura collettiva: una sorta di Wu Ming ma con la scollatura a Vespa. Più che un romanzo, come sostengo da mesi, Acciaio è una bara senza maniglie.

A trionfare è anche Michela Murgia che con il suo il romanzo Accabadora (Einaudi) ha stregato molti aggiudicandosi il Premio Campiello. Un altro esempio di romanzo furbo: una storia ambientata nella Sardegna degli anni Cinquanta e che affronta i temi dell’eutanasia e dell’adozione. La Murgia è salita sul carrozzone mediatico grazie alla polemica con Bruno Vespa davanti alle telecamere del Campiello: è bastato ribellarsi alla definizione del conduttore: «scrittrice precaria». La Murgia ha ripreso in moltissime interviste lo sdegno per la «precaria» rivendicando di essere stata una precaria solo lavorativamente avendo collaborato come «operatrice di tele-marketing» Peccato, è il vero caso di dirlo, che sia tutt’altro che precaria e abbia dimenticato di sottolineare che è stata per anni insegnante di religione alle scuole medie, responsabile dell’Azione Cattolica in Sardegna e autrice di uno spettacolo teatrale rappresentato nella piana di Loreto al termine del pellegrinaggio nazionale dell’Azione Cattolica del settembre 2004, a cui ha assistito persino Papa Giovanni Paolo II. Più che precaria si è raccomandata al Signore. Di certo non gratis.

Più che furbetti del quartierino è il tempo delle furbette dell’inchiostrino (meglio se simpatico e a scomparsa). Nulla di personale nei confronti della Murgia, come della Avallone, ma i loro romanzi sono illeggibili: inutile recensirli ma obbligatorio scriverne perché sono la dimostrazione che l’Italia Non è un paese per vecchie, citando il nuovo pamphlet della giornalista e scrittrice Loredana Lipperini appena uscito per Feltrinelli e che consiglio vivamente perché, pur essendo un saggio su un mondo che sembra non voler accettare l’invecchiamento (specie delle donne), è tra i migliori romanzi letti negli ultimi mesi. Una capacità di scrittura e di sintesi, di ironia e autoironia, che dovrebbe essere da esempio.

Sulla scia dell’Avallone e della Murgia gli editori sembrano di nuovo puntare sulla narrativa femminile italiana di qualità. Ne è esempio Fandango che sembra credere molto in Gilda Policastro, saggista e studiosa, al suo esordio narrativo con Il Farmaco. Lanciata con un’intervista esclusiva a Io Donna la settimana scorsa, la Policastro ha discettato di filosofia esistenziale autoergendosi a intellettuale alla Sarte&Beauvoir e per la prima volta un’autrice tenta di incarnare entrambi. Unico caso al mondo. Peccato che le risposte dell’intervista sembrano venire da un Platone con la clava più che nella «caverna», fosse corredato da ritratti da velina (non di carta). Sguardi seriosamente ammiccanti, un fascino e uno stile indiscutibilmente sciantoso che, purtroppo, non sono all’altezza del romanzo. Al contrario della Avallone e della Murgia, la Policastro ha tentato il “Colpo Grosso”. Non si è accontentata di raccontarci la storiella del sadomasochismo che inevitabilmente compenetra ogni coppia, dal punto di vista psicologico non certo fisico, ma pretendo di raccontarcela con una scrittura che lei stessa definisce «prosaica e lirica». Il risultato sono pagine di una noia da dizionario delle citazioni: un diarietto pruriginoso che vorrebbe adottare uno stile da sciabola di carta, alla Kristof o alla Szabò, ma che risulta una pantomima. Peccato perché le potenzialità ci sono. Peccato perderle nella ricerca di un simbolismo che non le può appartenere.

Alla fine, la vera rivelazione della stagione è stata Isabella Santacroce: il suo ultimo Lulù Delacroix (Rizzoli): un romanzo geniale, disperato ultimo appello a quel che resta in noi di umanità, che penetra negli ascessi distopici del nostro mondo con cattiveria e innocenza, con il sadismo di chi ti racconta una favola sottovoce facendoti esplodere in pieno volto la Verità dei nostri io. Chiaramente incomprensibile ritrovare in un romanzo se stessi inchiodati alla pagina: non siamo ancora pronti, perché la Santacroce è Letteratura e non narrativa. La sua lettura lascia postumi (non da poco) ma lascerà ai posteri.

Nel panorama trionfale di questo 2010 rosa-shocking, a stupire è l’esordio della giovanissima Veronica Tomasini con Sangue di cane (pubblicato da Laurana in una collana chiamata non a caso «Rimmel» guidata da Gabriele Dadati e dal demiurgo Giulio Mozzi). Una scrittura telegrafica, ipnotica, teneramente violenta di un’autrice che racconta la storia di un amore invisibile, in una città invisibile, con protagonisti invisibili, professionisti dell’invisibile. Non è Calvino la Tomasini, ma creatrice di un universo narrativo di abissi e contorni, di sprofondamenti e sfumature. Nessun mal di vivere, ma vivere fa male. A chi è sensibile, a chi comprende davvero la vita e poi gli tocca di viverla lo stesso. Non un libro per depressi ma una storia d’amore tormentata in cui i sentimenti sembrano essere alla deriva in una società ai confini del più Nulla. Dove tutto accade per quella musica del caso che chiamiamo vita. Un libro che sembra essere intrappolato tra le pareti contorte di un passato incancellabile, labile, tatuato dentro le anime morte del nostro essere fantasmi. Tutti i dubbi, le certezze, le sensazioni, i turbamenti di una giovane donna che vuole diventare adulta in un mondo adulterato. E finalmente, in questo 2010 di letteratura rosa shopping, un’autrice dimostra come dovrebbe essere la Letteratura: fragilmente infrangibile.

Come le donne di questi anni Zero.

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