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Stesso fiume, stesso disastro di 40 anni fa

Il Bisagno? Un rigagnolo che si gonfia, esonda, distrugge. E uccide. Ora come allora, la gente piange le vittime del maltempo e dell’incuria. Ora come allora, quarantuno anni fa. Il 7 ottobre 1970, un mercoledì

Stesso fiume, stesso disastro di 40 anni fa

Genova - Ora come allora, non è cambiato niente. Ora come allora, lo stesso fiume - ma quale fiume? Il Bisagno? Un rigagnolo - che si gonfia, esonda, distrugge. E uccide. Ora come allora, la gente piange le vittime del maltempo e dell’incuria. Ora come allora, quarantuno anni fa. Il 7 ottobre 1970, un mercoledì. Genova in ginocchio, annegata dall’alluvione.

In principio, un giorno come tanti: una mattinata uggiosa, niente di più. Qualche scroscio di pioggia, interrotto da intervalli sempre più lunghi in cui il cielo da profondo cupo regala una tregua, e verso mezzogiorno addirittura, qua e là, un pallido sole. In centro città la vita scorre come sempre. Solo nell'estremo ponente, delegazione di Voltri, a mano a mano che si avvicina la sera, le nubi si fanno sempre più scure, minacciose. Poco prima delle 19 si aprono le cateratte, che ingrossano immediatamente rivi e fiumiciattoli. Acqua e fango invadono le strade, inondano i negozi, travolgono auto e persone. Un ciclone tropicale. Il Leira è il primo dei rivi a tracimare, diventa un fiume in piena, sfonda gli argini, trascina in mare tutto quello che incontra nel suo percorso. Poi esonda il Polcevera. Crollano ponti. Frane e smottamenti interrompono le strade. L’estremo ponente genovese è tagliato fuori dal resto della città. Salta anche la corrente elettrica e i collegamenti telefonici, e al buio si diffonde il panico.

Si contano i primi morti, 14, qualcuno rimasto intrappolato in negozi e sottopassi, altri mentre sono al volante della propria auto. A mezzanotte il cataclisma si estende a tutta la Valpolcevera. Arrivano i soccorsi, molti i volontari, encomiabili che cominciano a spalare e a dare un po' di conforto. Passa la notte, la tempesta si sposta a levante, e poco dopo le 7 del mattino del giorno 8 si rovescia sul centro. Oltre 550 millimetri di pioggia in poche ore, 900 nell’arco della giornata. Il Bisagno, che tutto l’anno è uno stagno maleodorante, riceve acqua dal cielo e dagli affluenti. È la tragedia: Marassi, San Fruttuoso, poi la piazza della stazione Brignole diventano un enorme lago di acqua e melma. Si spezza in due il ponte romano di Sant’Agata che aveva resistito ai secoli. Le vittime «ufficiali» sono 44, 8 i dispersi, 2mila gli sfollati. Solo verso sera c’è una pausa.

Lo scenario che si presenta ai soccorritori è spettrale: la coltre di fango arriva a lambire i primi piani dei palazzi, strade e piazze sono impraticabili, e lo saranno per parecchi giorni. Solo l’orgoglio dei genovesi, in particolare l’impegno di tanti giovani che si rimboccano le maniche e lavorano giorno e notte per la ripresa della città, faranno il miracolo. Genova prova a rialzare la testa e ci riesce in poche settimane, anche se la ferita è e resta profondissima. Con la promessa e la voglia di non subire un’altra volta. L’avrebbero ricordata tutti, da allora, come «l’alluvione di Genova», con l’articolo come se fosse l’unica di tutti i tempi. Invece è successo di nuovo.

E, maledizione!, ora siamo costretti a scrivere di «un’alluvione come un’altra».

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