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Stile, rivoluzioni e Oscar. La Mostra del cinema fa 90

Il più antico festival del mondo nacque nel '32. Raccontava l'Italia tra film, scandali e politica

Stile, rivoluzioni e Oscar. La Mostra del cinema fa 90

nostro inviato a Venezia

La Vecchia Signora, sempre elegantissima e con voglia di stupire - nel senso di «meravigliare», cioè il verbo proprio del cinema - fa Novanta, che sono gli anni. Nella Cabala dei sogni è un numero corrispondente alla paura, ma qui si declina anche nell'horror, nel thriller, nel giallo, nella commedia, nel dramma, nel musical, nell'avventura...

Che avventura è stata, ed è e sarà, la Mostra del cinema di Venezia, nata nell'agosto 1932, anni fascistissimi di italianità esibita, di turismo da rivitalizzare al Lido, di sogni, di divi e di dive, quando davanti al grande schermo sulla terrazza a mare dell'Hotel Excelsior, lieu de naissance del festivàl, le signore erano sempre in lungo e i signori in smoking, o al peggio in giacca e cravatta, e oggi, novant'anni dopo, abbiamo forse più glamour - red carpet e internazionalità diffusa - ma perdendo, da spettatori, un po' di stile. Grandi film ma certe mise...

La mostra, no. Tra alti (con tanti altissimi) e bassi (con alcuni bassissimi) l'Esposizione Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - come da intestazione in quella gloriosa estate del 1932, prima di assumere nel '34 il nome ufficiale di Mostra - non ha mai perso il proprio stile, fatto di creatività e coraggio, che significa grandi splendori e ogni tanto piccole miserie. E così oggi la Biennale di Venezia festeggia il più antico festival cinematografico del mondo, modello e invidia di tanti, inventato dal conte Giuseppe Volpi di Misurata e che in 90 anni (a proposito: Auguri e altre 90 di queste mostre), a volte inseguendo a volte anticipando le grandi trasformazioni culturali, ha intrecciato la storia del cinema e quella dell'Italia, fra visioni, gusti, mode, scandali, polemiche, contestazioni, consacrazioni, film sopravvalutati, altri non capiti, tanti attori grandissimi e alcuni per caso, ruggiti, flop e standing ovation.

Ieri, tutti in piedi, alla sera, dentro la leggendaria Sala Grande al Palazzo del cinema al Lido - che ha visto sfilare tonfi e trionfi - per applaudire la proiezione di due pellicole presenti nel programma della prima edizione del '32 (dove c'erano anche Leni Riefenstahl, Greta Garbo, James Cagney, Ernst Lubitsch, René Clair... alla faccia delle star odierne): Regen, film olandese dei registi Mannus Franken e Joris Ivens, e Gli uomini, che mascalzoni..., capolavoro di Mario Camerini (di 66 minuti, quando non era obbligatorio sforare le due ore e mezzo per farsi notare), film che meglio di qualsiasi altro racconta l'Italia d'allora, che corre già incontro alla modernità e al consumismo, e simbolo di un cinema - ha fatto notare lo storico Giovanni De Luna - dal punto di vista del fascismo molto poco militante e propagandistico, come invece si tende a credere. Più del Regime, poté il mercato. Cosa fu davvero quell'epoca - e il Paese, il Lido e il cinema anni Trenta - lo racconta benissimo una mostra storica allestita a Ca' Giustinian dedicata alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte Cinematografica, con i manifesti e le locandine originali dei programmi del '32, le foto di scena dei film, quelle di vita quotidiana al Lido, i cinegiornali dell'Istituto Luce, la lettera con cui Louis Lumière, il padre del cinematografo, accetta di far parte del Comitato d'onore, nonché la scheda del referendum tra il pubblico per eleggere il regista del film «più originale» e di «maggior perfezione tecnica», e quello «più divertente» e «più commovente»...

Tra originalità, divertimenti e commozione, la storia della mostra di Venezia è lunghissima, e la poteva ricostruire solo il decano del nostro cinema, lo storico Gian Piero Brunetta, 80 anni, «lidense» nato per sbaglio a Cesena da genitori veneziani sfollati, spettatore fedele del festival per una vita e oggi autore di un libro monstrum: La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, 1932-2022 (Marsilio), 1200 pagine, 300 foto e un capitolo per ogni anno di festival, come fossero brevi romanzi. Il risultato è un'opera documentatissima che racconta il meglio e il peggio dei 18mila film proiettati in 90 anni al Lido, tra osanna e crucifige (a caso: su La finestra sul cortile la critica, che a Venezia non sempre ha dato il meglio di sé, scrisse cose vergognose, su La strada di Fellini che era un film vecchio e velleitario, La caduta degli angeli ribelli di Marco Tullio Giordana fu massacrato dai pregiudizi ideologici, e Blade Runner nell'82 passò quasi in sordina), e poi le diverse «visioni» di cinema decennio per decennio, i produttori, i registi, gli attori, le giurie (quando nel 2010 Quentin Tarantino diede il Leone d'Oro alla sua ex, Sofia Coppola, per Somewhere)... La testimonianza di Gian Piero Brunetta ieri è stata al centro del convegno che nella Biblioteca della Biennale ha occupato mattina e pomeriggio. Una grande festa per i 90 anni dove erano tutti invitati: direttori di ieri e di oggi (Alberto Barbera ha annunciato che a settembre si tornerà finalmente alla piena capienza delle sale, non ci sarà obbligo della mascherina e «le produzioni degli Stati Uniti saranno un po' meno presenti del solito»), attori e attrici (Isabella Ferrari e Valeria Golino, entrambe Coppe Volpi, la prima per Romanzo di un giovane povero nel '95, la seconda per Storia d'amore nell'86 e Per amor vostro nel 2015), super star come Tilda Swinton in collegamento da Oltreoceano, storici del cinema come Gianni Canova, il quale ha tracciato in poche slide una contro-storia del cinema italiano attraverso i Leoni d'Oro e i Gran premi della Giuria («Ancora oggi film di grande valore artistico vengono ignorati preferendo opere d'impegno politico: sogno una giuria che faccia le riunioni in diretta streaming»), e - naturalmente - grandi Presidenti. Come Paolo Baratta, in sella alla Biennale per quindici anni. È stato lui, in una tagliente ricostruzione della storia della Mostra, a raccontare i complessi rapporti tra Venezia e la politica (e ci è sembrato che il fascismo abbia peccato di ingerenza meno di certi partiti della Repubblica), dall'invenzione del conte Volpi di Misurata ai capolavori del Neorealismo, dalle interferenze romane degli anni '50 al Sessantotto che a Venezia durò dieci anni (e che in nome del revolutionary correct eliminò gerarchie, premi e selezioni...), alla rinascita e alle crisi economiche degli anni '80 fino al nuovo modello di Mostra che si impone negli anni Duemila proprio con la coppia Baratta-Barbera.

È il festival - e siamo a oggi - che conosciamo: indipendente e vincente, che ha creato nuovi spazi, coperto buchi, fisici e finanziari, favorito una nuova idea di cinema italiano e lanciato molti futuri Oscar. Da cercatrice del meglio, la Mostra - alla fine lo ha dovuto ammettere anche un giornale autorevole e pettegolo come Variety - ora è ricercata dai migliori.

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