STING La rockstar col liuto riscopre in chiesa le musiche del ’600

Antonio Lodetti

da Milano

Noblesse oblige. Per trasportare in concerto il suo Songs From the Labyrinth, cd dedicato alla musica rinascimentale di John Dowland, Sting ha voluto la Basilica di Santa Maria delle Grazie a Milano, dove ha ricevuto in dono il «sigillo» della città. Spazi piccoli insomma, gli stessi che il cantautore ha scelto a Londra e a Berlino. Non è certo roba per i centomila che nel luglio scorso lo hanno accolto in Piazza Duomo nel suo numero più riuscito: quello della rockstar. Infatti, vuoi per le polemiche vuoi per il repertorio, la basilica non è stata presa d’assalto da fan senza biglietto.
E in veste di trovatore Sting come se la cava? Bene, perché è un marpione ricco di comunicativa, e sa trasformare le asperità del percorso (qualche incertezza nel fraseggio o qualche passaggio un po’freddino) in piccole sorprese per chi l’ascolta. Eccolo lì ad accarezzare in solitudine il liuto nell’introduttiva Walsingham, eccolo in duo con il virtuoso liutista di Sarajevo Edin Karamazov, istigatore di questo progetto, in The Battle Galliard o in La Rossignol, inedita sul cd. E qui, dal vivo, ti accorgi quanto valga l’operazione. Lui l’aveva detto all’inizio. «Dowland è il padre di tutti i cantautori inglesi; con le sue ballate è stato il re del pop del 1600». Musica nobile dalle radici popolari, non a caso Walsingham è l’elaborazione di un antico tema folk; e Sting riprende proprio questo spirito. Attenzione, non è una scialba rilettura moderna di pagine antiche; è riportare un repertorio - chiuso per troppi anni in una torre d’avorio - in mezzo alla gente. Guardata con disincanto la poetica dei testi qui presentati - da Flow My Tears a Weep You No More Sad Fountains fino a In Darkness Let Me Dwell - potrebbe essere quella di uno dei più colti ed acclamati cantautori dei nostri tempi.
È così che Sting li interpreta, con quella voce all’apparenza esile che oscilla tra una tonalità e l’altra e viaggia su ritmi liberi - sostenuta dalla profondità del coro - mettendoci del suo ma rimanendo il più possibile fedele all’originale. È l’arte che supera i generi e gli stili, dove anche esecuzioni complesse come Flow My Tears diventano preziose non tanto per la pulizia d’esecuzione ma per il pathos. «Non ho una voce da Pavarotti ma punto sull’autenticità del canto», ha detto Sting alla presentazione dell’album. Non è un alibi, è il suo modo di vivere la musica a cavallo tra estetismo e sensualità, tra colto e popolare, tra spontaneità ed artificio, tra snobismo e semplicità. Sting racconta Dowland - soprattutto l’artista cattolico ed esiliato dai sovrani inglesi - nel suo peregrinare presso le corti di mezza Europa compresa quella dei Medici -; lo fa alternando ai suoni la lettura delle sue vibranti lettere, tratteggiandone la storia. Prima della sognante e melanconica Have You Seen the Bright Lily Grow si parla dell’autore Robert Johnson, prestigioso suonatore di liuto e figlio di quel John Johnson che Dowland sperò di poter sostituire alla corte di Elisabetta Prima nel 1595.
È un racconto che si dipana lentamente, sul confine tra il reading e il concerto, dove alle suggestioni sonore della delicata Come Heavy Sleep fa eco la lettera a Sir Robert Cecil che esprime il suo desiderio di visitare Firenze e Venezia. Un percorso storico e musicale che trasforma in presente le antiche atmosfere shakespeariane. La trasfigurazione di Sting insomma, che mai si era spinto così in là nei suoi vagabondaggi verso lidi lontani dal rock.

Niente più barriere sonore, è il messaggio di Sting che, per cacciarlo bene in testa al pubblico, esegue con il liuto classici come Message In a Bottle e Fields of Gold e il drammatico blues Hellhound On My Trail di Robert Johnson, re del blues maledetto (omonimo di quello citato prima), per dare un tocco di mistero ad una serata idilliaca.

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