Adélaide de Clermont-Tonnerre
Parigi - A pochi giorni dalle elezioni americane il regista Oliver Stone - tre Oscar, grande inclinazione alle polemiche - fa con W. un ritratto compassionevole del quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti. Il film era stato prenotato dal Festival di Roma, che si apre oggi; le incertezze sul suo destino, alle quali sono seguite voci di un fantomatico veto politico in Italia, hanno poi orientato W. verso il Festival di Londra. Ieri intanto Stone ha incontrato la stampa a Parigi.
Signor Stone, negli Stati Uniti il suo film è uscito il 17 ottobre. Buone le reazioni?
«Molto migliori del previsto. È un film arduo da vendere con Bush all’apice dell’impopolarità».
Chi l’ha finanziato?
«Abbiamo avuto grosse difficoltà. Nessuno studio ci ha sostenuto e ci siamo dovuti rivolgere in Asia e in Europa».
Lei conosce Bush di persona.
«Eravamo nella stessa classe all’Università di Yale, ma l’ho incontrato solo una volta, più tardi. Bush è il mago di Oz, ma vedendolo si è un po’ delusi».
Il suo ritratto non è una requisitoria: Bush le è simpatico?
«Per lui ho empatia, più che simpatia. Penso che, in fondo al cuore, Bush sia un idealista e un manicheo. E che abbia anche una feroce volontà. Strano: ho sempre criticato la sua azione e ora lo mostro sotto una luce più umana».
Lei fa sdraiare tutta la famiglia sul lettino...
«... Bush è al centro di un dramma shakespeariano. È insieme il figlio maggiore e la pecora nera della famiglia. Lo soffoca l’ombra del padre. È meno intelligente di lui, meno bravo come sportivo, meno diplomatico. I genitori gli preferiscono il fratello minore Jeb...».
Dunque?
«Bush jr. è stato ossessionato dall’idea di superare il padre, di portare a termine in Irak ciò che quest'ultimo non era stato capace di fare. Doveva mostrare la sua forza».
Film su Kennedy, Nixon, Alessandro Magno, ora su Bush. Il potere l’affascina?
«Coi loro eccessi, questi personaggi mi offrono tensione drammatica».
Come sintetizza il ruolo di Bush?
«La fine di un’era: i suoi due mandati sono insieme la definizione e il declino del potere americano. La sua guerra al terrorismo in otto anni ha provocato il caos mondiale».
Come ha reagito alla sua dichiarazione di guerra lei che era nel Vietnam?
«Sono stato depresso. Tutto ricominciava... Ho fatto tre film contro il Vietnam, invano. Alla fine degli anni Novanta, l’umore generale è divenuto sempre più militarista».
Da che cosa l’ha dedotto?
«Alla gente è piaciuto Salvate il soldato Ryan, poi Black Hawk Down. Si tornava ad adorare la tecnologia e la guerra. Era nefasta l’idea - già di Bush Sr. - di cancellare la sindrome del Vietnam. Se fosse stato là con me, Bush jr. ci avrebbe pensato bene prima di lanciarsi sull’Irak».
Che cosa le interessa in lui?
«Volevo capire perché l'America l'ha votato».
C’è riuscito?
«Talora Bush ha l’aria ebete, talora quella da cow-boy, ma è, come John Wayne, una sorta di archetipo americano: l’uomo del West, il solitario, il duro, il macho... Metà del Paese l’ha votato per due volte. È chiaro che rappresenta un po’ dell’anima americana».
Il suo film esce alla vigilia delle elezioni per mandare un messaggio al cittadino americano?
«Capendo perché l’abbiamo eletto, saremmo più lucidi su noi stessi come popolo. Ridiamo di Bush, ma ne paghiamo il conto...».
È un modo per sostenere Obama?
«Tema del film è Bush. Ha guidato il Paese per otto anni e i miei figli e i miei nipoti ricorderanno il suo nome. Ha cambiato la storia. Lo si ricorderà come un presidente guerriero, tipo Lincoln e Roosevelt, ma poi è andato oltre, violando la Costituzione. Quanto a Obama, l’ho sempre sostenuto».
Obama vincera?
«Sarebbe formidabile, ma il sistema americano è blindato. Obama non ha ancora vinto, sono in tanti contro di lui...
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