La storia dell’uomo raccontata disegnando frontiere e confini

Marco Meschini

Tutto - o quasi - cominciava tra i banchi di scuola. Quando la professoressa inforcava gli occhialini e, bacchetta alla mano, si voltava di tre quarti e cominciava a seguire i confini del mondo, lassù, sulla carta appesa al muro. E giù nomi a grappolo: Stati e regioni, laghi e fiumi, mari e oceani, monti e città. Quanti nomi, troppi.
Lo stesso accadeva per la lezione dopo, che solitamente era la lezione di storia. Storia e geografia, in effetti, andavano a braccetto nei piani curriculari di ministri e riformatori, e per i docenti e gli alunni questa visione finiva con il tradursi in un magma di dati e date, quasi che il binomio fosse inscindibile. E anche un po’ antipatico.
In realtà la visione di fondo non era affatto sbagliata. Perché lo storico si misura quotidianamente con il confine e il limite dello spazio, così come con quelli del tempo. E la geografia sta proprio lì a dirci quanto cosmo vi sia da esplorare nel profondo della conoscenza geografica del mondo. Perché sarebbe davvero limitante racchiudere la geografia nel periplo della cartografia. Certo, una buona rappresentazione del mondo su carta - o su file, oggi - è fondamentale, e aiuta a leggere per scale, a orientare la lettura stessa, a porre in relazione, a individuare e a fare varie altre cose.
Ma la geografia è anche molto altro: essa studia l’ambiente in relazione all’uomo e quindi descrive gli aspetti fisici del mondo e, forse soprattutto, gli aspetti antropologici e culturali, secondo il grande apporto della geografia umana, di cui voce fondamentale in Italia è stata la scuola genovese di Vallega. E poi c’è molto altro: il clima, l’idrografia, la vita animale e vegetale. Insomma, l’ambiente nel suo senso più lato e in relazione all’uomo e con l’uomo, i reciproci influssi, benefici o malefici che siano.
Per queste semplici ma forti ragioni lo studio della geografia è pratica che torna in auge in un mondo che necessita di ricomprendere i propri rapporti geopolitici e, soprattutto, geostorici. La geografia così intesa va quindi sottratta all’immagine un po’ polverosa che ancora le assegna certa prassi scolastica.
Un esempio positivo e di grande momento di questo tipo di apporti si è avuto negli studi sul Mediterraneo di Braudel e Matvejevic, che hanno posto al centro del loro ragionare una regione, quasi prosopopea ipostatizzata del farsi (e disfarsi) delle civiltà umane. Ma del resto non c’è bisogno di risalire alle antiche concezioni dei climi - come aveva fatto Tolomeo nel II secolo dopo Cristo e, dopo di lui, molti altri - per sostenere la diversità dei popoli a partire dal loro rapporto con l'ambiente che li ha accolti al loro sorgere o al loro dislocarsi. Che se poi non si può più parlare di una «natura» climatica delle etnie, è però certo che il freddo e il caldo - come l'acqua e il legno, o il rame e il petrolio - incidono e di gran lunga nella storia dell’uomo. E non solo a livello economico, bensì anche politico e culturale, in prospettiva sia storica sia antropologica.
Non è quindi un caso se il titano Atlante, sconfitto con gli altri suoi pari da Zeus e messo a sorreggere la volta del cielo, sia finito in epoca moderna (1570) a sostenere il globo terracqueo per poi passare a misurarlo compasso alla mano.


È infatti questa l’immagine che del mitico gigante si è fatta l’evo moderno, nel suo tentativo di autodefinire una visione del mondo, un mondo più piccolo e insieme immenso, come già aveva detto Platone nel suo Fedone: «Sono convinto che la Terra sia per se stessa qualcosa di oltremodo grande e che noi ne occupiamo solo una piccola parte, abitando intorno al mare come formiche o rane intorno a una palude».

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