La storia di Laura: quando l’handicap diventa un martirio

Maria Vittoria Cascino

La cartella clinica in mano e il bisogno di rendere pubblica una storia perché non diventi la normalità. A raccontarla una mamma, che chiameremo Angela, che da quarant'anni segue una figlia con problemi psichici non gravi, ma abbastanza significativi da comprometterne il diretto inserimento nei vari settori della società civile. Sul bel viso di Angela leggi dolore, non rassegnazione. Leggi rabbia e pudore. L'amarezza dell'aver bussato a troppe porte, dell'avere trovato medici con le mani legate per ragioni politiche, dell'aver urlato quel bisogno d'aiuto quando bastava un po' di cuore per ascoltare. Tutti i protagonisti della storia hanno un privato da difendere. Niente nomi dunque, che siano di persone o strutture sanitarie. Ma tutto è successo. Così come lo racconta Angela, così come affiora dalla cartella clinica.
Famiglia della Genova-bene, una figlia seguitissima nella ricerca delle scuole più adeguate al suo handicap: «Sempre istituti statali con insegnanti di sostegno, indicati da un'ottima psicologa. Laura (nome di fantasia) fa progressi, migliora nelle difficoltà di linguaggio. Resta comunque un po' indietro rispetto alla sua età cronologica».
Fin qui quella forza d'amore che legge i bisogni e gli umori di Laura, che scruta ombre e incertezze. Che l'aiuta a raggiungere una certa autonomia, che la responsabilizza affidandole nell'azienda di famiglia compiti gratificanti. Laura è un libro aperto. Un cielo dove le nuvole corrono veloci. «Devi solo avere la pazienza di seguirle». Angela sorride. L'anima strizzata e asciugata, uno schermo piatto su cui far scivolare gli eventi.
«Lo scorso anno l'equilibrio di Laura sembra alterarsi. È nervosa, mangia di continuo. Arriva a pesare centotredici chilogrammi. Continua ad essere seguita dalle strutture pertinenti, ma c'è bisogno di altro». Parte da qui quella storia insensata che aggiunge dolore al dolore. Angela si rende conto dell'inefficienza della struttura che ha in carico Laura: «Non fanno nulla per lei, non la stimolano. Nessun tentativo di inserirla nel mondo del lavoro. Niente di niente. Sono io che martello. Che chiedo di occuparla in attività in un centro diurno. Dopo mille preghiere, riescono a sistemarla. Laura si inserisce facilmente, ma ha difficoltà nel lavoro manuale, fa fatica a realizzare quegli svuotatasche, “cestini” li chiama lei». Dopo tre mesi la direttrice ne chiede l'allontanamento, «diceva che Laura non era adatta e rischiava di sentirsi frustrata.
Torniamo alla struttura che la seguiva. La situazione si trascina. Laura sta male, è sempre più nervosa, gli appuntamenti con la psichiatra saltano per urgenze nei reparti. Laura non ha riferimenti. Comincia a mangiare. Anche di notte». Angela si ferma. Tu pensi alla forza d'una madre che non sente stanchezze e umiliazioni. Che ha la gola secca, ma ripete sempre la stessa domanda, ad un medico dopo l'altro, perché forse è la volta buona. La vedi Angela che s'aggrappa a tutto, anche a quella targa in ottone che parla di trattamento dei disturbi del comportamento alimentare e dell'umore. E chi ci entra lì. Una lista d'attesa da paura. Altri medici, altre preghiere. Laura viene accolta il 4 ottobre 2005 e verrà seguita fino al 26 giugno 2006 in regime di trattamento in centro diurno. Che significa dormire a casa ed entrare e uscire liberamente dall'istituto.
«In nove mesi il peso di mia figlia passa da 113 a 120 chilogrammi. Scopro che lì frequenta una ragazza che approfitta di lei, si fa pagare i conti di caffè, sigarette e ricariche telefoniche. Lo faccio notare ai medici, ma non è compito loro ostacolare le amicizie tra ospiti». Laura è sempre più nervosa. La dimettono a giugno. Angela scorre il diario clinico e inciampa su una frase: «Telefona la madre, inadeguata come sempre, riferisce che la figlia sta sempre peggio e accusa la struttura di essere poco attenta alle condizioni della figlia». Angela sbotta: «Inadeguata perché li sollecitavo di aiutarmi affinché mia figlia frequentasse il meno possibile quella ragazza e non fosse manipolata da altri? Mi chiedo che tipo di rapporto psichiatrico-psicologico abbiano instaurato con lei. Umore non migliorato, comportamento passivo e sull'aspetto alimentare lasciamo perdere».
Laura dovrebbe tornare sotto il controllo della struttura precedente, ma la dottoressa che si occupava del suo caso è ammalata. Quindi nessun referente per Laura, che in questi ultimi tre mesi ha contato solo sul supporto familiare, «ma il dosaggio terapeutico chi glielo controllava?». Finché Angela bussa all'ultima porta. Quella di uno stimato psichiatra che già aveva incrociato la strada di Laura. Si prende a cuore le due donne, un colpo di spugna sul pasticciaccio di quelle strutture accreditate col sistema sanitario nazionale e il consiglio di cambiare aria. Si riparte da Laura, che prima di tutto è una persona. Una bella persona. Angela sorride di nuovo. Adesso leggi speranza.

Leggi la stessa determinazione lunga quarant'anni. Leggi la gioia del passo avanti, minuscolo, ma è pur sempre un inizio. Perché certe storie non si ripetano. Perché chi non ha una mamma come Angela non finisca gettato in un angolo e derubato della sua dignità.

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