Storia

La mafia e lo sbarco in Sicilia: "L'accordo con gli americani? Un mito"

A 80 anni dall'operazione Husky, il professore Salvatore Lupo, autore del libro Il mito del grande complotto, prova a fare chiarezza sul ruolo della criminalità organizzata. "La mafia non diede nessun contributo alla pianificazione delle operazioni militari"

Il tenente colonnello Lyle Bernard a colloquio con il generale dell'esercito USA George Patton nei pressi di Brolo.
Il tenente colonnello Lyle Bernard a colloquio con il generale dell'esercito USA George Patton nei pressi di Brolo.
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Il 10 luglio 1943 le divisioni anglo-americane sbarcarono in Sicilia. Dopo aver occupato Lampedusa, Pantelleria e Lampione un mese prima, le truppe alleate misero piede per la prima volta in Italia. Questa operazione, nome in codice Husky, fu concepita da Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill alla presenza dei loro consiglieri militari più fidati durante la conferenza di Casablanca: aprendo un secondo fronte in Europa, sostenevano i due leader, si sarebbe potuta alleggerire la pressione sull’Urss impegnata a Est contro i nazisti.

L’occupazione dell’Isola, completata il 17 agosto dello stesso anno con la liberazione di Messina e il ripiegamento dei reparti italo-tedeschi in Calabria, ebbe successo e fu favorita dal rapido sgretolamento del potere fascista, già indebolito dai grandi scioperi operai del marzo ’43 a Torino e nelle altre città del nord e dall’arresto di Benito Mussolini, diretta conseguenza della sfiducia votatagli dal Gran consiglio il 25 luglio.

Dopo la Seconda guerra mondiale, tuttavia, tra le varie concause che avrebbero determinato il collasso delle istituzioni e il trionfo delle potenze alleate in Sicilia è emerso il ruolo della criminalità organizzata. La mafia, uscita depotenziata ma tutt’altro che azzerata dall’operato del “prefetto di ferro” Cesare Mori, approfittò della caduta del regime e comprese fin da subito che l’amministrazione alleata avrebbe rappresentato un’opportunità irripetibile per riacquisire il controllo del territorio.

Soldato britannico
Un soldato britannico mentre legge una guida sulla Sicilia per i soldati nel luglio 1943.

Il mito del grande complotto

Il professore Salvatore Lupo, docente di storia contemporanea all’Università di Palermo e uno dei massimi esperti di mafia, è l’autore de Il mito del grande complotto (Donzelli), un breve saggio che analizza come nel tempo sia riuscita a ergersi un’autentica contronarrazione – diventata la versione ufficiale – che si fonda sulla presunta esistenza di una serie di accordi preventivi sull’organizzazione della campagna militare tra la mafia e gli Stati Uniti.

Cosa fece la mafia? Niente. Se parliamo della guerra propriamente detta, non diede nessun contributo”, evidenzia Lupo. “Bisogna distinguere i fatti del ’43 da quello che accadde a New York un anno prima, cioè la collaborazione tra la Naval intelligence, i servizi segreti della marina statunitense e quella che allora si chiamava Unione siciliana, oggi più propriamente nota come mafia, nella persona del grande boss Lucky Luciano”.

Salvatore Lupo professore
Il professore Salvatore Lupo.

Lucky Luciano e Cosa nostra statunitense

Salvatore Lucania, all’anagrafe Charlie Luciano, era nato nel 1897 in provincia di Palermo, ma era cresciuto a New York in una famiglia di immigrati. Entrato in contatto con le principali bande criminali dell’epoca, diventò uno dei gangster di punta degli anni Trenta e riformò Cosa nostra statunitense, dotandola di una struttura (Commissione) che ripartiva il potere nelle diverse famiglie affiliate. Arrestato nel 1936, venne condannato a un massimo di cinquant’anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione.

Luciano era in prigione allora e i servizi segreti della marina si fecero prendere dal panico di fronte ai grandi successi ottenuti dai sommergibili tedeschi nella guerra sottomarina dei primissimi mesi dell’ingresso degli Usa nel conflitto”, spiega il professor Lupo. “Gli americani – prosegue – pensarono di avere un grande problema di sicurezza, perché tra i pescatori potevano annidarsi spie che avrebbero agevolato le operazioni tedesche e possibili sabotaggi nel grande porto di New York. E ricorsero a un’operazione tradizionale del management delle imprese americane cercando un accordo per mantenere l’ordine con i vertici della grande criminalità che controllavano l’International Longshoreman’s Association (Ila), il sindacato dei portuali”.

Cosa c’entra l'intesa sul porto di New York (operazione Underworld) con lo sbarco alleato in Sicilia? “Quando venne sottoscritto, l’operazione Husky non era nemmeno nella mente di Dio!”, commenta il Professore.

Lucky Luciano
Lucky Luciano su un treno in Italia nel 1951.

Com'è nato il mito del grande complotto

Il “mito” però si è consolidato comunque e Lupo, profondo conoscitore degli archivi storici disponibili Oltreoceano, rintraccia anche il momento in cui è nato. “Il grande complotto si è creato nel tempo successivo, che è il tempo della Guerra fredda. Se guardiamo le politiche seguite dal governo militare alleato tra il ’43 e il ’44, è certo che in una serie di circostanze gli alleati, convinti che questi mafiosi fossero antifascisti in quanto perseguitati dai fascisti, si mostrarono tolleranti verso le loro abilità appoggiandosi a istituzioni tradizionali come chiesa e aristocrazia”.

L’idea del grande complotto venne presentata nel 1958 dal giornalista siciliano Michele Pantalone sulle colonne dello storico quotidiano palermitano L’Ora, ma venne approfondita soltanto nel 1962 con la pubblicazione del libro Mafia e politica. Secondo Pantaleone, l’accordo di New York avrebbe anticipato un altro patto riguardante una “cogestione delle operazioni militari”. Cogestione che però non ci fu mai stata. “Luciano era in galera durante lo sbarco. Nell’atto di scarcerazione c’era scritto che venisse espulso verso l’Italia: non è che lui lo gradisse, non aveva nessuna voglia di spostarsi, per lui l’Italia era un Paese straniero, era andato via a 9 anni e si era sempre dichiarato americano”, osserva Lupo.

Dunque a scatenare le ipotesi di complotto fu un affare politico tutto interno all’America, e cioè la decisione del governatore Thomas Dewey (lo stesso che catturò per primo il boss in qualità di procuratore speciale) di graziare Luciano, costretto a trasferirsi a Napoli nel 1946. Lo scandalo intorno all’operato di Dewey fu amplificato dalla campagna elettorale presidenziale del 1948: per i democratici la scarcerazione di Luciano fu un assist che consentì al partito di gettare discredito contro lo sfidante repubblicano di Harry Truman. Il mafioso italo-americano venne inoltre sospettato dagli agenti del Narcotic Bureau di essere il regista del commercio internazionale di droga dall’Italia verso gli Stati Uniti, un'accusa che però non ha mai trovato riscontro.

Harry Truman e Thomas Dewey
Il governatore repubblicano di New York Thomas Dewey stringe la mano al presidente Usa Harry Truman durante una visita alla Casa Bianca.

La complicità della politica italiana

La tesi di Pantaleone, che nel complotto include anche il famigerato capomafia di Villalba Calogero Vizzini, approdò addirittura in parlamento nel 1976. Il senatore democristiano Luigi Carraro firmò una relazione finale della Commissione antimafia che nei contenuti accoglieva e rilanciava le conclusioni del “grande complotto”, elevandolo al rango di verità storica. “Diversi documenti di ufficiali dell’amministrazione alleata mostrano come questa si rendesse conto del problema mafioso rischiando di avallarne un revival, ma quando si sciolse l’Allied Military Government fu l’autorità italiana a gestire la vicenda successiva”, prosegue il professore.

Vizzini e tutti gli altri vicini al Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), filoamericano, abbandonarono le spinte indipendentiste per legarsi a un’altra forza filo-occidentale: la Democrazia cristiana. “I separatisti – aggiunge – saltarono sul cavallo vincente in questa dialettica di autonomia regionale e di vittoria della Dc su altri gruppi che potevano contestargli la leadership, come i socialcomunisti. Ora, che la Dc fosse un partito filo-occidentale non c’è dubbio, ma che gli americani avessero tutte le colpe della corruzione e dell’indulgenza verso il crimine organizzato in quella prima stagione mi pare un po’ eccessivo. La politica italiana sia nella componente più anti-americana, ma anche quella filo-occidentale, trovò comodo trovare uno straniero a cui dare la colpa”.

Lupo però ci tiene a fare chiarezza: i complotti, grandi o piccoli, sono sempre esistiti e su essi la storiografia si è concentrata verificando il materiale rivelato dalle fonti. Sostenere che tra mafia e Stati Uniti ci sia stata una collusione e una connivenza eclatante in virtù di alcune oscure interlocuzioni significa assecondare un’atavica propaganda mafiosa. "Il mito è trasversale, alle forze politiche italiane e alla magistratura sembra innocuo tanto è vero che lo ripetono come niente fosse non avendo idea di quello di cui parlano. C’è un’idea in molti di noi di guardare alla storia d’Italia sotto la categoria del complotto. Il movimento antimafia resta affezionato a questa mitologia senza pensare che invece questa è la mitologia più filomafiosa che possa esistere, perché presuppone che la mafia abbia vinto la Seconda guerra mondiale e gli dobbiamo la libertà che abbiamo ottenuto con la vittoria sul nazifascismo”, sottolinea il Professore.

Il libro – conclude – vuole ristabilire una verità storica rispetto a un dibattito pubblico debordante e intossicante”.

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