Servilia, la donna che sussurrò al potere di Roma

Amante di Cesare e madre di Bruto, Servilia seppe intrecciare politica e passione, influenzando la fine della Repubblica con il silenzio, lo stile e l’arte sottile del comando invisibile

Servilia, la donna che sussurrò al potere di Roma

Era una donna che camminava in diagonale nella storia, come chi sa che la linea retta è un’illusione dei geometri. La vedi nei giorni che precedono le Idi, nel respiro corto delle case patrizie, a misurare la luce sulla pietra e il peso dei nomi sulle spalle. Servilia. Un nome asciutto, dritto, romano. Una consonante che apre il cancello e poi il fruscio della «v» che scivola come un velo. Intorno, la città trama come una vite selvatica. Dentro, lei coltiva l’arte più antica: stare al centro e non apparire, ascoltare e governare senza un gesto di troppo. È la grammatica dell’influenza. È Roma quando sceglie il sussurro al grido.

Viene da un sangue che sa di leggi e secessioni, di processi e sentenze. Figlia di Quinto Servilio Cepione e di Livia Drusa, cresce in una casa dove i verbi si coniugano al plurale del potere. Impara presto il vocabolario dei grandi: senatus, mos, dignitas. Impara soprattutto il contrario: la fragilità che abita sotto la toga, l’ansia nuda dei padri che temono di non essere all’altezza degli antenati. Da quel vuoto nasce una specie di musica. Servilia la ascolta. È il suo talento. Saper leggere gli uomini come si legge il vento.

La prima mossa è un matrimonio cucito addosso alla repubblica: Marco Giunio Bruto, dei Bruti che cacciarono i re. Il sigillo sulla porta dice destino. Nasce un figlio, Bruto anche lui, e nessuno lo sa ma quel vagito porta già con sé il metallo dei pugnali. Il marito muore presto. A Roma la vedovanza è una parentesi, non la fine della frase. Servilia sposta il baricentro e sposa Decimo Giunio Silano. La casa si allarga, i saloni prendono voce, gli ospiti si moltiplicano. È lì, tra coppe e cuscini, che la politica trova il suo vero tavolo da lavoro: il triclinio.

Quando entra in scena lui, la stanza cambia temperatura. Giulio Cesare. Non serve dire altro. Si guardano e capiscono che il mondo avrà bisogno di loro due per essere raccontato meglio. La loro è una lingua rapida, l’alfabeto di chi riconosce nell’altro un’eccellenza speculare. Non è il fuoco improvviso di una passione d’osteria: è una dedizione lunga, un patto elastico, una fedeltà laterale. Sopravvive alle campagne, alle mogli, alle regine importate dal Nilo, ai sonni interrotti dal tuono dei cavalli. Vent’anni, forse di più, come un fiume carsico che scompare e ritorna, sempre uguale e sempre diverso. Gli storici ci passano sopra con il pennello grosso, come fosse un dettaglio. Ma a Roma i dettagli pesano, incidono, deviano fiumi.

C’è un giorno in cui la città, stanca di ipocrisie, li scopre. La Curia è un alveare impazzito: la congiura di Catilina ha il sapore dei processi sacri e delle apnee. Cicerone parla come se il latino fosse nato dalla sua gola. Catone — sì, proprio lui, l’ossessione del rigore, il fratellastro di Servilia — punta il dito. Cesare da fuori riceve una lettera, la apre con misura, e Catone lo incalza: «Leggila ad alta voce». C’è puzza di congiura. Roma trattiene il fiato. Cesare invita il fratello della sua amante a lasciare stare. “Non è il caso, Catone”. Ma Catone è testardo e insiste. È convinto che sia un messaggio di Catilina., “Facci leggere quello che c’è scritto”. Cesare sa essere perfido e per umiliare Catone non esita a svergognare Servilia. Quel pizzino di terracotta passa di mano in mano, tutti lo leggono, tutti sorridono, perfino Cicerone, che infine lo gira a Catone. Quello che ne esce è una confessione d’amore di Servilia, parole private trasformate in arma, un colpo di teatro che umilia i moralisti e consegna alla città la prova di un legame che tutti sospettavano e nessuno osava nominare. È il desiderio di una fellatio da fare subito. Una risata fredda, un mormorio, il rossore che saluta gli stoici. Un jaque mate, diremmo oggi, giocato con perfidia elegante. È storia che circola come vino denso nelle serate buie. La trovate sussurrata nei corridoi, appuntata su pergamene che odorano di cera. E non c’è Catone che tenga davanti a un’evidenza così perfettamente romana: il pubblico che divora il privato e lo trasforma in consenso.

Servilia non crolla. Fa ciò che sanno fare le donne quando il mondo finge di guardarle dall’alto: sposta il peso su un piede, raddrizza lo sguardo e continua. Si libera del marito con la naturalezza dell’etichetta che si cambia, smussa l’onta e resta a capo tavola. Cesare la ricopre di doni, terre, favori. Roma commenta, come sempre. C’è chi giura che tra i sussurri di mercato si sentisse persino una malizia: Cesare avrebbe venduto per «un terzo», tertio, quasi a ricordare il nome della figlia di Servilia, Tercia, il cui sorriso, dicono, non lasciava indifferente il dittatore. È un pettegolezzo colto, un gioco di parole trasformato in insinuazione. In questa città le monete hanno sempre due lati: faccia e leggenda.

Poi ci sono le frasi che bruciano. Qualcuno scrive che Servilia, per tenere vivo il fuoco, abbia perfino offerto a Cesare la bellezza giovane di Tercia. È un’accusa che oggi sentiremmo innaturale, ai limiti del mostruoso. A Roma è un pezzo della stessa commedia tragica, dove il corpo è un asset e la reputazione un campo di battaglia. Nessuno sa se sia vero: il racconto funziona perché è plausibile, ed è questo il veleno delle storie: quando possono essere credute, diventano vere per metà. E quella metà basta a reggere un’epoca.

Servilia non è gelosa. Non fa scenate, non pratica l’isteria. Sa che Calpurnia è la moglie, e Cleopatra la regina esotica che incendia l’immaginario. Lei si ritaglia la stanza che le spetta: quella in cui si decide, quella delle notti romane in cui gli uomini, sazi di arroganza e vino, dicono finalmente la verità. È lì che pesa il suo contributo: nell’arte di far dire, di trattenere, di indirizzare. La politica come lenta architettura delle frasi.

Intanto, il figlio cresce. Bruto diventa un uomo che ha imparato a leggere Roma con la grafia della madre e la retorica dei maestri. Con Cesare ha un rapporto che mescola affetto, ammirazione, fastidio. Un intreccio: figlio, allievo, rivale possibile, magari erede sentimentale. È l’equivoco perfetto, l’abbraccio che un giorno può diventare stretta. Quando la guerra civile si apre come una ferita, Servilia ascolta il metallo del futuro. Sa che niente sarà più come prima. Roma, come sempre, sceglie un uomo per fare la rivoluzione e lo chiama dittatore perché non sa dargli altro nome. Bruto non sceglie Cesare. Bruto sta con Pompeo. Bruto che non ha mai accettato che Cesare abbia concesso la figlia Giulia al vecchio Pompeo e non a lui che l’amava più di se stesso. Bruto nella guerra civile sceglie la parte perdente. Ma Cesare lo perdona e addirittura lo ricompensa. È un perdono che per Bruto sa di umiliazione. La morte di Cesare comincia da lì.

Che cosa sapeva Servilia? Che cosa scelse di ignorare? Roma intera scricchiola di cospirazioni. I passi dei congiurati rimbalzano sulle scale della Curia come gusci di noce. Bruto è in mezzo. Cassio stringe e allarga gli occhi. Catone ormai è un fantasma che detta sentenze dall’aldilà. È possibile che una donna come Servilia, cresciuta nel laboratorio del potere, non annusasse il sangue? È possibile che nessuno, al riparo delle sue pareti, abbia lasciato cadere una sillaba che suonasse come presagio? Le fonti non rispondono. Gli storici drizzano la penna e poi, prudenti, tacciono. Io immagino che quel silenzio sia già una risposta: a volte l’amore più radicale è lasciare che l’altro incontri il proprio destino. Oppure no, ci ha provato, magari è stata proprio lei a inviare messaggi al vecchio indovino cieco, che declamava: “Cesare, guardati dalle Idi di marzo”. “Spurinna, a quanto pare non sono ancora morto”. E Spurinna, vanamente: “Le Idi, Cesare, sono arrivate, ma non ancora finite”.

Poi, quel messaggio, che Cesare riceve e mette in tasca, senza leggerlo, e forse era l’ultimo messaggio di Servilia, l’ultima speranza. Cesare entra e i pugnali lo cercano come api sul miele. Bruto, dicono, esita un attimo, perché ci sono padri che ti crescono nell’ombra anche quando non porti il loro nome. Poi colpisce. Il sangue disegna un rosso che Roma non dimenticherà. A casa, quel giorno, c’è una madre che capisce che tutto è compiuto, e non nel senso cristiano del termine, ma nel senso romano: la catena degli atti ha trovato il suo ultimo anello.

Servilia non fugge. Non piange in pubblico. Resta. Questo verbo, in latino, vale un trattato. Restare quando il vento cambia, restare tra i detriti e le liste di proscrizione, restare quando gli uomini misurano il futuro con la geometria del rancore. Ottaviano e Antonio la lasciano stare. Nessun processo, nessuna gogna. Anche questo dice qualcosa: la città riconosce a Servilia una statura che la salva, forse in ricordo di Cesare, forse per la nobiltà con cui attraversa la disgrazia. Forse, semplicemente, per pudore verso una donna che ha perso tutto e non chiede nulla. Muore pochi anni dopo, in una villa amica, il tempo di attendere che il lutto diventi destino e il destino leggenda.

Cosa resta di lei, oggi, quando camminiamo sul Foro e ascoltiamo i turisti pronunciare male i nomi? Resta l’immagine di una regista invisibile, di una mente che ha scelto la cucitura al taglio, il gesto minimo alla proclamazione. Resta una domanda: davvero la storia è fatta solo dai vincitori che parlano a voce alta? O c’è un’altra storia, femminile e laterale, che lavora ai bordi e, proprio per questo, piega la linea principale? Servilia ha spostato di un grado l’asse della Repubblica. È quel grado che, a distanza, cambia la rotta delle navi. È bello immaginarla un’ultima volta, al tramonto, a riordinare poche cose su uno scrittoio. Una tavoletta di cera, una spilla, un profumo tenue. Da fuori arriva il rumore dell’Urbe che non smette mai. Servilia appoggia la mano al legno, chiude gli occhi e ascolta. La storia, quando è vera, ha il suono della legna che scoppietta: niente fanfare, solo brace. Lei lo sa. Si può regnare anche così, senza corona, senza decreto. Basta scegliere la parola giusta e saperla dire nel momento perfetto.

È questo il dono che ha lasciato a Roma: l’idea che il potere, prima di essere forza, è stile. E lo stile, quando nasce dalla sostanza, sopravvive a tutto. Anche ai pugnali. Anche al giudizio degli uomini. Anche al tempo che ingiallisce le pergamene

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