Luomo delle docce era quello che puliva la doccia del Reparto, dove un tempo mi cambiavo. Ricordo che costui aveva una cicatrice orribile nel volto che gli scavava parte di una guancia e gli mancava, pure, mezzo piede che aveva lasciato, durante un turno lavorativo di notte, in un ingranaggio del Laminatoio.
Un giorno entrando nello spogliatoio, fuori orario, lo sorpresi - mentre lavava il pavimento con una lunga ramazza, accompagnandosi nei movimenti - a canticchiare una filastrocca simile ad una preghiera. E per mia intuizione compresi che si esprimeva in dialetto calabrese.
Luomo delle docce, in quella sua vocalità, era talmente assorto che ebbi, persino, timore dinterromperlo.
Stetti zitto e lo ascoltai.
Però, alla fine non resistetti dal desiderio di farmi spiegare il suo contenuto.
«Storiella antica - egli mi disse un po emozionato per questo mio interesse - che cantano a Surpi le nonne per fare addormentare i più piccini, quando a sera inoltrata, destate, fanno i capricci e non vogliono prendere sonno. Perché intenso, penetra nelle case, ancora lodore del rosmarino e allegro, continua fuori, lo svolazzare dei pipistrelli e si sente il gracchiare dei rospi laggiù nello stagno».
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