Una sera di fine aprile, più fredda del solito per colpa del vento che spazza la città. Sette «allegre amiche» di varia età ridono, scherzano, si informano dei rispettivi figli, si scambiano informazioni, si confessano qualche malanno, indicando cure e rimedi. Niente di più normale. Se non fossimo intorno a un falò, su una strada allestrema periferia nord di Milano, con quattro prostitute nigeriane. Giovanissime.
Amiche in strada
La più grande ha 26 anni. Non hanno davanti sfruttatori, nel loro caso la «maman», clienti o poliziotti, loro tradizionali interlocutori. Anzi nemici. Ma, forse per la prima volta nella loro vita, qualcuno che le sta trattando come esseri umani e non vuole soldi, sesso o documenti in regola. Solo parlare. Le altre tre «amiche» sono tre operatrici di «Avenida», organizzazione della Caritas. La nigeriane ridono di gusto, hanno unespressione finalmente rilassata. Essere dallaltra parte della barricata consente di vedere queste ragazze come mai si mostrerebbero: dovendo vendere tutto, custodiscono infatti gelosamente la loro umanità. Le volontarie offrono tè caldo e caramelle, ma molte rifiutano: cercano un sorriso, basta quello.
Siamo anche noi, finti volontari, nel gruppo. E da maschi, vedere poi a un certo punto portare via una delle nostre «amiche» da un altro uomo, provoca una stretta al cuore. Per il disagio. Forse anche un po per la vergogna. Siamo in giro da tre ore, partenza alle 22 in punto dalla sede di Avenida in via della Signora. Su una vecchia Fiat Palio station wagon. Insieme a Nadia, Vanessa e Linda. Allinizio puntiamo su viale Sarca. Lauto è conosciuta, qualcuna saluta già vedendola arrivare. Poi si scende, con le tasche piene di «bon bon», termos e bicchieri di carta. Ma soprattutto con i volantini scritti in più lingue con numeri di telefono e indirizzi. In particolare di ambulatori con medici volontari che effettuano visite ginecologiche ed esami del sangue. È il sistema migliore per agganciare queste ragazze spesso terrorizzate e disinformate ad arte dai loro sfruttatori. Tanto per capirci, una volta una giovane sentendo parlare di medici scappò via credendo le volessero strappare qualche organo. La maggior parte sono già vecchie amiche e vengono chiamate per nome. Poi la chiacchierata prosegue in maniera quanto mai informale. Nessun invito a lasciare la strada. Solo una sorta di messaggio in bottiglia del tipo «Nel caso vogliate farlo, noi siamo qui». Eventualmente scatterebbe il percorso di recupero fatto di permesso di soggiorno, comunità protetta, un lavoro normale.
Storie di vita
Eccole sfilare una dopo laltra, con alle spalle storie tutte uguali e tutte diverse. Cè quella scafata, che sa già tutto. Quella appena arrivata, che casca letteralmente dal pero, ma ascolta attenta. Unalbanese racconta di essere in strada da pochi giorni: ha un figlio a casa e il marito in prigione. «Lui no fatto niente. Solo comprato macchina rubata. Ma lui no sapeva». E gli avvocati costano. Così lei ha preso la scorciatoia. «Ma spero finire presto. Questo è sonno. Quando mi sveglio mi dico: non è mai successo, solo sogno». O incubo. Passa unauto con quattro ragazzotti dentro. Urla qualche oscenità. Nessuno ci fa caso, ma che pena. Di solito la conversazione finisce con uno squillo di cellulare. È il protettore spazientito che, nascosto chissà dove, le richiama allordine.
Poi avanti ancora verso la periferia. Stiamo uscendo dalla zona «bianca», quella riservata a romene e albanesi, le due comunità più folte. Anche se in giro cè lOnu del sesso. Persino cinesi, una novità. Non giovanissime, quasi tutte hanno perso il lavoro nel loro Paese squassato da uno sviluppo capitalistico selvaggio. Cercano fortuna in Italia, impiegandosi presso ricchi connazionali. Se perdono anche questo lavoro si spalanca davanti a loro la strada.
In periferia
Ora siamo già ai confini della città e sconfiniamo nellhinterland. Regno incontrastato delle africane, tutte provenienti dalla Nigeria. Sono le più allegre e disponibili, anche perché non sono guardate a vista. Larruolamento è più subdolo infatti: si indebitano per arrivare in Italia e appena nel nostro Paese consegnano il passaporto alla «maman». E solo quando avranno restituito fino allultima lira, rientreranno in possesso del documento. Quanto ci metteranno è affar loro. Anche se non potrebbero permetterselo, si lasciano andare allunico momento di socialità permesso. E ne pescano a piene mani. Si siedono intorno al fuoco (acceso per scaldarsi, ma anche per farsi notare nel buio della notte) e chiacchierano, ridono, scherzano, raccontano di figli e parenti, delle amiche, del loro Paese. Ritornate finalmente, anche se per pochi minuti, degli esseri umani, trattate da esseri umani da altri esseri umani.
(5.continua)
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