Strage di Erba, Rosa e Olindo in una gabbia per due

UNITI Si vedono sei ore al mese, divise in 2-3 volte. A loro è l’unica cosa che importi

È dietro le sbarre da quell’8 gennaio 2007, ma l’unica preoccupazione di Olindo Romano, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di Erba assieme alla moglie Rosa Bazzi, sembra essere l’esame orale per rinnovare la patente («è scaduta, e adesso come faccio?», avrebbe confidato ai suoi legali). Oggi a Milano inizia il processo d’appello, e già da qualche giorno sono iniziate le schermaglie tra gli avvocati degli imputati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico d’Ascola (che ha sostituito Enzo Pacia, scomparso lo scorso 7 ottobre) e la famiglia di Raffaella Castagna, vittima della mattanza assieme al figlioletto Youssef, alla madre Paola Galli e alla vicina di casa Valeria Cherubini. Gli avvocati, nelle richieste aggiuntive al ricorso in appello, hanno ipotizzato un movente familiare dietro la strage, facendo infuriare tutto il clan Castagna («ci chiedano scusa»).
Ma per Olindo e Rosa le strategie difensive e tutto quello che succederà davanti alle sbarre dell’aula di corte d’appello del tribunale milanese conterà poco o nulla. Come per il primo grado, il processo ai due coniugi sarà occasione per rivedersi al di là delle 6 ore al mese stabilite nei mesi scorsi dal giudice di sorveglianza. Per i due presunti mostri è questo che conta. Per quanto aberrante possa sembrare all’uomo della strada che li ha già condannati, per quanto sia difficile anche solo pensarlo, l’unica cosa che importa ai due coniugi condannati in primo grado per aver massacrato tre donne e sgozzato un bambino, è quella di stare insieme. Come un «quadrupede», definizione coniata dal pm comasco Massimo Astori che ha condotto le indagini, Olindo e Rosa si sono aggrappati al ricordo della loro simbiosi per sopravvivere al macigno giudiziario che li ha marchiati. Perché è la lontananza la loro vera «pena» senza fine. E quella «cella matrimoniale» chiesta agli inquirenti un secondo dopo la loro confessione poi ritrattata, ne è l’epitaffio.
Oggi si vedono due-tre volte al mese. Lui è a Opera, fuma e legge, fa qualche lavoretto in cella e parla poco. Lo hanno visto giocare a palle di neve, dicono che sia abile con i lavori di bricolage come confezionare collane di perline. Non ha più la sua «Bibbia», scoperta dal Giornale e decriptata dai magistrati di Como. Scrive i suoi pensierini che poi leggerà alla moglie, che non sa né leggere né scrivere. «Il mio animo è in letargo: si sveglia per tre ore ogni 15 giorni quando arriva Rosa», ha detto Olindo a Panorama qualche mese fa. A lei, nel supercarcere di Bollate, un po’ manca la sua ex compagna di cella, una spacciatrice conosciuta a Vercelli a fine 2008.
Quando il 16 dicembre di due anni fa vennero separati e spostati dal carcere Bassone di Como per decisione dell’amministrazione penitenziaria, con Olindo spedito a Piacenza e Rosa finita in Piemonte, alla vigilia di Natale, sembrava che la sceneggiatura delle loro vite fosse arrivata all’ultimo atto. Tanto che Pacia e Schembri avevano annunciato un ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo. «Dov’è l’Olindo?», aveva detto Rosa, prima di sbiancare e svenire alla notizia. Poi la notte in bianco, in lacrime e la conferma arrivata dal direttore del penitenziario piemontese il mattino successivo. «Ma quando potrò rivedere mio marito?», l’altra domanda ossessiva. E quei proclami («se ci dividono la faccio finita»), lanciati quasi con le stesse parole da un carcere all’altro. Olindo aveva detto «so come si fa, qui in carcere ho imparato», dopo aver saputo dalla tv che lei non era nel suo stesso penitenziario.
La loro detenzione (i due sono ancora sorvegliati a vista, 24 ore su 24) si era fatta complicata. Soprattutto per Olindo, che aveva litigato con un secondino per una perdita d’acqua sopra il suo letto. «Non l’ho mai aggredito», si era difeso. Ma per colpa di quel diverbio era scattato un altro trasferimento, nel penitenziario di Parma, con tanto di strascichi polemici per un presunto «infarto» che avrebbe colpito Olindo nel viaggio tra le due carceri, «scoperto» dai medici del penitenziario di Opera, con tanto di piccolo giallo sulle cartelle cliniche.
Non è da escludere che il loro rapporto morboso tornerà al centro del processo, soprattutto se oggi i coniugi tradiranno davanti alle telecamere le loro emozioni, senza curarsi delle conseguenze. Come se quello che succede al di là delle sbarre non importasse nulla.
Tecnicamente si chiama «non cosciente partecipazione al processo» dell’imputato ed è la formula prevista dall’articolo 70 del nuovo codice di procedura penale che ha rivisto i parametri della «incapacità di intendere e di volere». Dietro la richiesta di perizia psichiatrica ci sarebbe questa «carta»: valutare se Olindo e Rosa siano in grado di comprendere il significato del processo a cui sono sottoposti.

Carta che i legali della coppia vogliono di nuovo giocarsi ma solo dopo aver chiesto alla corte di valutare le nuove piste frutto delle indagini difensive. L’obiettivo, non impossibile, è ottenere la riapertura del dibattimento.
felice.manti@ilgiornale.it

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