Prima un inquietante documento riservato sui soldati occidentali ammazzati dagli «alleati» afghani. Poi una strage di francesi che lo trasforma in sinistra profezia. Infine la minaccia d’immediato ritiro francese e la prospettiva di un fallimento della strategia occidentale. La giornata di ieri rischia di venir ricordata come una delle più nere dall’inizio della missione Nato in Afghanistan. Tutto inizia con la pubblicazione sul New York Times di uno studio americano in cui si sottolinea come dal maggio 2007 al maggio 2011 almeno 58 soldati dell’Alleanza sono caduti uccisi dalle reclute afghane. Quasi contemporaneamente un militare afghano ne scrive un nuovo capitolo. Al termine di una serie di esercizi sotta la guida dei militari francesi la recluta afferra un mitragliatore e spara a sorpresa sui propri addestratori. Quattro militari vengono uccisi sul colpo, quindici cadono feriti, otto dei quali in maniera grave.
La sconcertante sincronia tra rapporto e strage innesca un effetto moltiplicatore. Il primo a spiegare di esser pronto a valutare «la questione di un ritiro anticipato delle truppe» se non verrà garantita la sicurezza è il presidente Nicolas Sarkozy. «L’esercito francese è lì al servizio degli afghani contro il terrorismo e i talebani, non - tuona il presidente - per farsi sparare addosso dai soldati afghani». Ad ottobre Parigi aveva anticipato il rientro di 400 militari lasciando sul terreno 3600 soldati. Un imprevisto ritiro di tutto il contingente innescherebbe un effetto a valanga sia a livello di governi che di opinioni pubbliche, lasciando sguarnite vaste aree dell’Afghanistan. La disgraziata ipotesi renderebbe impossibile il completamento dell’addestramento dell’esercito afghano considerato fondamentale per garantire la stabilità del governo, la sicurezza dei civili e un ritiro ordinato dal Paese.
La reazione di Sarkozy rispecchia, purtroppo, le ragioni che hanno portato Barack Obama a gettare alle ortiche la strategia studiata per cambiare il corso della partita afghana. Anche Sarkozy come Obama fa i conti le presidenziali del prossimo aprile ed è pronto a tutto per evitare che il sangue dei caduti comprometta la propria rielezione. Obama segue quella linea da almeno un anno. Dopo le promesse d’inizio mandato quando affidò al generale David Petraeus, vincitore dell’Irak, la nuova strategia afghana ha subito innescato la retromarcia promettendo un ritiro a partire dal 2014. Preoccupato da un devastante scontro con Petraeus, mandato a guidare le truppe a Kabul, il presidente non ha esitato a promuoverlo e a rimuoverlo mandandolo a guidare la Cia. Da allora l’incompiuta missione afghana è senza guida. Anche la delicata questione delle rappresaglie ai danni dei civili afghani, a cui Petraeus dedicava tanta attenzione, è rimasta irrisolta. «I soldati americani non ci ascoltano, sono troppo arroganti… s’infuriano quando subiscono perdite e se la prendono con i nostri civili», lamentano i soldati afghani intervistati nel rapporto del Pentagono. Quel rapporto che sottolinea che «i litigi letali non sono più rari o isolati, ma riflettono una crescente e sistematica minaccia omicida di magnitudine senza precedenti tra alleati».
Quella minaccia – frutto anche degli errori della Casa Bianca - colpisce anche i soldati italiani. Il precedente più conosciuto è quello del 18 gennaio 2011 quando il caporalmaggiore Luca Sanna viene ucciso da un afghano in divisa a Bala Murghab.
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