Stragi, le bugie di Violante sulla trattativa

L’ex presidente dell’Antimafia nel luglio scorso ha ritrovato improvvisamente la memoria e si è presentato ai magistrati. Ma la sua verità su Ciancimino è smentita dagli atti della Camera. Un pm: "Se avesse parlato in questi 17 anni..."

Stragi, le bugie di Violante sulla trattativa

nostro inviato a Palermo

Parlare di mafia e di politica significa parlare di Silvio Berlusconi, innanzitutto. Poi del senatore Dell’Utri, quindi del figlio di Ciancimino, poi del pentito Spatuzza, dell’agenda rossa di Borsellino, dei carabinieri collusi, delle indagini sulle stragi, di pizzini e di papelli. Di tutto in questi giorni si discute fuorché di un personaggio tornato d’attualità che, a torto o a ragione, di quella stagione è stato indiscusso protagonista avendo ricoperto il ruolo di presidente della commissione parlamentare antimafia: Luciano Violante. Il quale, solo a 17 anni dalle stragi, e solo dopo aver letto sui giornali le allusioni del figlio di Ciancimino che in qualche modo tiravano in ballo lui e il senatore Mancino sui tentativi di trattativa fra Cosa nostra (per il tramite dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino) e lo Stato (attraverso i carabinieri del Ros di Mario Mori) s’è ricordato di qualcosa che evidentemente aveva rimosso. «E che - si duole un pm palermitano col Giornale - in tutti questi anni sarebbe potuto tornare utilissimo a diverse inchieste e svariati processi».
Di che si tratta? Il 23 luglio scorso Violante ritrova improvvisamente la memoria allorché riferisce ai pm di Palermo che lui, con Ciancimino senior, non ci aveva mai voluto avere a che fare nonostante l’allora colonnello dei carabinieri, Mario Mori, gli avesse detto che l’ex sindaco di Palermo, in cambio di «qualcosa», sarebbe stato disposto a incontrarlo perché «avrebbe potuto dire cose importanti». Ai pm Violante aggiunge d’aver incontrato Mori al massimo tre volte, e di aver chiesto al colonnello se di quella disponibilità di Ciancimino avesse avvisato l’autorità giudiziaria, ricevendo in risposta che... beh, si trattava di una «questione politica». Come dire, ovviamente no.
Bene. Negli archivi della Camera si scopre che la tardiva dichiarazione di Violante collide violentemente con un’altra vecchia dichiarazione, dello stesso Violante, trascritta a pagina 181 della settima seduta della commissione d’inchiesta da lui presieduta dedicata proprio al rapporto fra mafia e politica. Fra le cose da fare per andare a fondo al problema, Violante suggerisce varie cose. Compresa quella di ascoltare sia «quei collaboratori (pentiti) che possono tornare utili» sia, udite udite, «Vito Ciancimino, che lo ha chiesto revocando la condizione, posta nel passato, di essere ripreso dai canali televisivi pubblici o privati, in diretta nel momento in cui rendeva la deposizione».
Quell’antica dichiarazione di Violante, oltre a contraddire quella del 23 luglio, è un formidabile riscontro alla versione fornita in più sedi dal colonnello Mori: «All’onorevole Violante non ho mai proposto di incontrare Ciancimino a tu per tu, ma di farlo parlare in commissione Antimafia». La domanda, a questo punto, è scontata: se Ciancimino chiese per ben 5 volte (l’ultima con Violante presidente) di parlare pubblicamente alla commissione d’inchiesta, perché Violante parla di incontro privato? E perché - vista la sua massima disponibilità («gli faccia fare apposita istanza») - poi Violante decide di non ascoltare mai l’ex sindaco di Palermo, depositario di tante verità? Violante dice poi che il colonnello Mori gli rispose picche («è una questione politica») alla domanda se avesse avvertito l’autorità giudiziaria delle intenzioni di Ciancimino. Ma così non è, perché agli atti c’è la prova provata che il Ros di Mario Mori, con nota del 24 gennaio 1993, avvertì subito il procuratore Gian Carlo Caselli della disponibilità di Ciancimino a collaborare, tant’è che poi l’ex sindaco venne preso a verbale per dieci volte. La collaborazione venne casualmente meno allorquando Ciancimino iniziò a parlare di affari, collusioni e scheletri negli armadi del centrosinistra. Piuttosto verrebbe da farla a Violante la domanda: ma lui, sapute quelle cose, avvertì i pm? E perché, visti gli ampi poteri d’indagine conferiti al presidente della commissione d’inchiesta antimafia, non indagò personalmente interrogando i protagonisti dell’asserita trattativa? E ancora. Gli incontri con Mori, sostiene Violante, sono stati al massimo tre. La difesa di Mori ne ha contati molti ma molti di più. Sono tutti elencati in un dossier (a cominciare da quelli prodromici alla convocazione dei vertici del Ros in commissione antimafia alla terza seduta) e prossimamente verranno prodotti al processo che vede Mori indagato per la mancata cattura di Provenzano. Perché un abbaglio del genere? A smentire Violante ci sono pure i manoscritti sequestrati anni fa a Ciancimino con le richieste autografe presentate a più riprese dall’ex sindaco alla commissione antimafia. Compresa l’ultima, indirizzata proprio a Violante, nella quale l’ex sindaco si metteva a disposizione del Parlamento rinunciando, per la prima volta, alla richiesta di diretta televisiva. Ce n’è allora abbastanza per giustificare il chiacchiericcio di queste ore teso a riesumare il giallo del boss Giovanni Brusca che prima parlò di un accordo segreto con Violante (con il quale effettivamente volò sulla tratta Roma-Palermo) e poi ritrattò. L’ex braccio destro di Riina non è stato mai amato dai professionisti dell’antimafia, e non solo per quel riferimento alla «sinistra che sapeva delle stragi» detto in aula al processo Dell’Utri. Brusca demolì le tesi su Andreotti, smascherò la doppia vita criminale del pentito Di Maggio, disintegrò il teorema Buscetta sulla centralità decisionale della Cupola. Ma a lungo, inspiegabilmente, venne trattato come un «dichiarante» anziché come un «collaboratore di giustizia».

Prima di dargli lo status, anche economico, di pentito, lo hanno lasciato precauzionalmente a bagnomaria in regime di 41 bis (è ancora in cella!) nonostante gli attestati di attendibilità dei tribunali. Alla fine ce l’ha fatta. È diventato pentito, stipendiato come gli altri colleghi dallo Stato. È il primo pentito pagato non per parlare ma per tacere. Sarebbe ora di capire perché.

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