La Roma non è ancora americana. Ma quasi. La Roma non ha ancora un nuovo padrone. Ma quasi. La Roma non ha acquistato grandi campioni. Ma quasi. È la storia buffa di una squadra, forse di una città, che ha perso la capoccia per un gruppetto di nuovi e sconosciuti azionisti che subentrano, per il momento a parole, alla famiglia Sensi, liquidata, in fretta e volgarmente, da Unicredit (la banca è la vera proprietaria del club ed è presente comunque, dovunque) e da una fetta importante della stampa romana che sa passare velocemente da piazza Venezia a piazzale Loreto. È la storia di Thomas Di Benedetto che ha la faccia rotonda, il volto non molto espressivo, gli occhi pesanti e parla di un sogno, del futuro, della rivoluzione del calcio, disciplina che gli americani, anche di Boston, frequentano per spirito esclusivamente mercantile, dicesi manageriale, perché altro non potrebbero fare, per ignoranza o scelta.
Basterebbe verificare la situazione della proprietà del Manchester United, chiedere informazioni sui Glazer e sui debiti scaricati dall'imprenditore newyorkese sulla gloriosa società e tirare il conto, come hanno fatto quelli del Liverpool con l'accoppiata Hicks Gillett.
Mentre in Francia, in Spagna, in Inghilterra gli investitori esteri, russi, uzbeki, arabi, scendono in campo con denari pesanti, nomi e cognomi che affascinano i tifosi, gli americani di Roma traccheggiano, promettono, lasciano che altri alla fine decidano, si limitano alla piccola cilindrata, chiedono pazienza, eppure vengono accolti dallo sventolio delle bandiere, i pop corn sostituiscono la bruschetta, si arriva addirittura a leggere un comunicato della Football Association inglese che rinvia ad autunno il congedo di Baldini, come se questo possa rappresentare la svolta della storia giallorossa affollata oggi di papaveri, pennacchi, dirigenti, uomini di comunicazione.
«Roma non si è fatta in un giorno» pronunziata da Di Benedetto è una frase alla quale possono abboccare gli stolti e i furbastri. Ma è la conferma del ballo in maschera.
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