Lo strano caso dello smemorato McQuae

di Jerome K. Jerome
Lo inviti a cena da te per il giovedì seguente per incontrare alcune persone desiderosissime di conoscerlo. «Adesso vedi di non sbagliarti» dici, ricordando i contrattempi passati, «e di non venire mercoledì». Lui ride bonariamente, mentre fruga per la stanza in cerca dell’agenda. «Dove diavolo è questa agenda! Non fa niente, me lo appunterò qui: sei testimone, lo sto scrivendo». Tu lo controlli mentre segna l’appuntamento su un foglio, poi lo guardi mentre lo fissa con una spilla sulla scrivania. E finalmente te ne vai soddisfatto.
«Spero proprio che venga» dici a tua moglie il giovedì sera, mentre ti vesti. «Sei sicuro di essere stato chiaro?» risponde lei, sospettosa, e istintivamente senti che succederà qualcosa di cui lei darà la colpa a te. Suonano le otto, e con loro gli altri ospiti. Alle otto e mezza tua moglie viene chiamata con discrezione fuori dalla sala, dove la cameriera la informa che il cuoco ha deciso che, in caso di ulteriore ritardo, se ne laverà le mani di tutto quanto. Tua moglie, tornando, suggerisce che, se si vuole cenare, sarebbe meglio iniziare. È evidente che pensa che, fingendo di aspettarlo, tu stia semplicemente recitando una parte, e che sarebbe stato più virile e sincero, da parte tua, ammettere fin dall’inizio che ti eri dimenticato di invitarlo.
Il venerdì, alle otto e un quarto, lui si precipita alla porta e suona con foga. Sentendo la sua voce nell’ingresso, vai a riceverlo. «Scusami, sono in ritardo» grida allegramente. «Uno sciocco d’un vetturino mi ha portato ad Alfred Place, invece che a...». «Be’, ora che sei arrivato, cosa desideri?» lo interrompi, sentendoti tutt’altro che bendisposto nei suoi confronti. È un vecchio amico, però, e non puoi essere sgarbato. Lui ride, e ti dà una pacca sulla spalla. «Caspita, è tempo di una bella cena, caro mio! Sto morendo di fame!». «Ah» brontoli tu. «Allora vattela a prendere da qualche altra parte». «Che diavolo vuoi dire?» dice lui. «Mi hai invitato a cena». «Niente affatto» dici tu. «Ti ho invitato a cena per giovedì, non venerdì». Lui ti guarda fisso, incredulo. «Come ho fatto a ricordare venerdì?» chiede con sguardo perplesso. \
Un altro giorno stavo pranzando assieme a lui al Junior Hogarth, quando un tale Hallyard, amico di entrambi, si avvicinò a noi. «Ragazzi, cosa fate oggi pomeriggio?» domandò quello, sedendosi al tavolo. «Mi fermerò qui a scrivere delle lettere» risposi io. «Venite con me, se volete fare qualcosa» disse McQuae. «Vado a portare Leena a Richmond». («Leena» era la giovane con cui, se non ricordo male, era fidanzato. Poi si venne a sapere che all’epoca di fidanzate ne aveva ben tre. Delle altre due si era completamente dimenticato). «C’è un sedile posteriore bello spazioso». «Ah, va bene» disse Hallyard, quindi se ne andarono insieme in una carrozza.
Un’ora e mezza dopo Hallyard entrò nella sala fumatori con aria depressa ed esausta, quindi si gettò su una sedia. «Pensavo che fossi andato a Richmond con McQuae» dissi io. «Avete avuto un incidente?». «Sì». Era decisamente ermetico nelle risposte. «Si è ribaltata la carrozza?» continuai. «No, soltanto io». Il suo lessico e i suoi nervi sembravano davvero scossi. Attesi una spiegazione, e dopo un po’ lui mi accontentò. «Siamo arrivati a Putney» disse, «dopo essere andati a sbattere una sola volta contro un tram, e stavamo salendo la collina quando, all’improvviso, lui ha svoltato. Tu sai come svolta lui, no... Certo, sapendolo uno si prepara, ma non ho calcolato che potesse svoltare là, e la prima cosa che ricordo è di essermi ritrovato in mezzo alla strada con una dozzina di imbecilli che mi sorridevano sopra». Si lamentò delle escoriazioni, e disse che sarebbe tornato a casa. Gli suggerii di prendere una vettura, ma lui rispose che preferiva andare a piedi.
Incontrai McQuae la sera al St. James’s Theatre. Era una prima, e lui stava disegnando bozzetti per la rivista The Graphic. Nell’attimo in cui mi vide, subito si diresse verso di me. «Proprio te cercavo» disse. «Per caso ricordi se Hallyard è venuto con me a Richmond, oggi pomeriggio, in carrozza?». «Sì» risposi io. «È quel che sostiene anche Leena» rispose, sconcertatissimo, «ma ti giuro che lui non c’era, quando siamo arrivati al Queen’s Hotel». «È vero» dissi io, «l’hai scaricato a Putney». «L’ho scaricato a Putney!» ripeté lui. «Non ricordo minimamente di aver fatto una cosa del genere». «Lui sì» risposi io. \
Tutti dicevano che non si sarebbe mai sposato; che era assurdo pensare che avrebbe potuto ricordarsi il giorno, la chiesa e la ragazza, e tutto la stessa mattina; che, se fosse arrivato all’altare, avrebbe dimenticato cos’era andato a fare. Hallyard era convinto che si fosse già sposato, ma che il particolare gli fosse sfuggito di mente. Io stesso ero certo che, se fosse convolato a nozze, avrebbe dimenticato tutto quanto il giorno successivo. Ma si sbagliavano. Per qualche miracoloso prodigio, la cerimonia si fece e se i sospetti di Hallyard fossero stati giusti (cosa del tutto probabile), ci sarebbero stati problemi. Quanto alle mie, di paure, le liquidai nel momento in cui vidi la sposa. Era una donna piccola, affascinante e allegra, ma non sembrava di quelle che gli avrebbero permesso di dimenticare tutto.
Non lo vedevo dal giorno del matrimonio, celebrato in primavera. Avvicinandomi a casa, di ritorno dalla Scozia, mi fermai qualche giorno a Scarborough. Dopo aver mangiato a prezzo fisso, infilai l’impermeabile e uscii a fare una passeggiata. Pioveva forte, ma avevo bisogno di prendere un po’ d’aria. Avanzando lungo la spiaggia buia, imciampai su una figura accovacciata, che cercava di ripararsi un poco dalla tempesta sotto il muretto delle Terme. Mi aspettavo qualche insulto, ma quell’uomo sembrava troppo affranto per farci caso. «Vi chiedo scusa» dissi io, «non vi avevo visto». Al suono della mia voce, la figura balzò in piedi. «Sei tu, vecchio mio?» gridò. «McQuae!» esclamai. «Per Giove!» fece lui, «non sono mai stato così contento in tutta la mia vita di vedere un uomo». Quindi, stringendomi la mano, quasi me la staccò. «Ma che diavolaccio ci fai qua?» dissi io. Cominciai a temere che avesse lavorato talmente tanto da beccarsi una febbre cerebrale. «Perché non torni a casa?» gli domandai. «Non posso» rispose. «Non so dove vivo. Ho dimenticato l’indirizzo. Santo cielo, portami da qualche parte e fammi mangiare qualcosa. Sto letteralmente morendo di fame». «Non hai soldi?» domandai io mentre ci dirigevamo verso l’albergo. «Neanche un centesimo» rispose. «Siamo arrivati qua da York, mia moglie e io, verso le undici. Abbiamo lasciato le nostre cose alla stazione, e ci siamo messi a cercare un appartamento. Una volta sistemati, mi sono cambiato e sono uscito a fare una passeggiata, dicendo a Maud che sarei tornato all’una per pranzo. Come uno stupido, non mi sono appuntato l’indirizzo, e non ricordo la strada che ho fatto. Non ho idea di come farò a ritrovarla». «Ma non ricordi com’era la via, o che tipo di casa era?» domandai. «Non ne ho la minima idea» rispose. «Ho lasciato far tutto a Maud, e non me ne sono preoccupato». «Hai provato a sentire in qualcuna delle pensioni?» domandai. «Provato!» esclamò amaramente. «È tutto il pomeriggio che busso alle porte e chiedo se Mrs McQuae risiede là, ma mi sbattono la porta in faccia. Poi sono andato in un ristorante» continuò triste, «e ho cercato di convincerli a offrirmi una bistecca. La proprietaria, però, ha detto che aveva già sentito quella storia, e mi ha ordinato di andarmene davanti a tutti i clienti. Credo che, se non avessi incontrato te, sarei andato ad affogarmi».
Dopo essersi cambiato e aver mangiato qualcosa, discusse la situazione con maggior calma. La loro casa era chiusa e i parenti di sua moglie se ne stavano andando all’estero. Non c’era nessuno a cui potesse scrivere e che fosse in grado di inoltrare la lettera a sua moglie; nessuno con cui avrebbe potuto comunicare. La possibilità che s’incontrassero di nuovo in questo mondo appariva remota. Né mi sembrava – per quanto affetto nutrisse per la moglie – che vedesse l’ora di quell’incontro, se mai fosse arrivato, con eccessiva ansia. «Penserà che sia strano» mormorò rimuginando tra sé, seduto sulla sponda del letto, mentre meditabondo si sfilava i calzini.


Il giorno seguente, mercoledì, andammo da un avvocato e gli esponemmo il caso: lui richiese informazioni a tutti i titolari di pensioni di Scarborough, con la conseguenza che, il giovedì pomeriggio, McQuae poté tornare (alla maniera d’un eroe tragico all’ultimo atto) nella sua casa e da sua moglie. La volta successiva che lo incontrai gli chiesi che cosa avesse detto sua moglie. «Ah, proprio quello che mi aspettavo dicesse» rispose. Quello che si aspettava, però, non me lo disse mai.

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