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Lo strano caso di Facebook tra affari, privacy e libertà di insulto

INCHIESTA. "Mafia e antimafia per noi pari sono": i vertici del social network pensano al business. Intanto fioriscono gruppi razzisti, nazisti, stalinisti

Lo strano caso di Facebook tra affari, privacy e libertà di insulto

Alla fine Mark Zuckerberg, geniale inventore di Facebook, ha dovuto ammetterlo: «Forse dobbiamo fare qualcosa per imparare a spiegarci più chiaramente». L'ammissione è arrivata due giorni fa, dopo che in tutto il mondo gli utenti del social network si erano sollevati contro le nuove condizioni di utilizzo del servizio, che permettono a Facebook di conservare i dati personali dei suoi utenti anche se questi scelgono di ritirarsi dal network. Una pratica, in realtà, che Facebook metteva in pratica da sempre, e che solo ora è stata resa nota.

La sollevazione ha costretto Zuckerberg ad uscire allo scoperto. É un risultato che si raggiunge di rado. Di solito, la reazione preferita dell'azienda di Palo Alto, di fronte alle polemiche, è il silenzio. Facebook lascia che i suoi utenti si azzannino gli uni con gli altri senza intervenire. Per lei, è tutta pubblicità. É la prova di quanto il network inventato in un garage da Zuckerberg sia diventato la vera arena del confronto nella comunità internazionale avanzata, quella dei cittadini informaticamente progrediti. 175 milioni di utenti sono tanti. Diventano tantissimi se si tiene conto che, in ognuno dei paesi dov'è presente Facebook, quegli utenti rappresentano la parte più evoluta della società.Ormai non c'è evento, non c'è causa o discussione che non passi da Facebook. Ma questo, inevitabilmente, solleva qualche problema.

Dov'è Facebook? La risposta parrebbe ovvia: a Palo Alto, in California. In realtà lì c'è il quartier generale, ma Facebook è una struttura magmatica allocata qua e là per il mondo. Basta scorrere le offerte di assunzione pubblicate da Facebook sul suo sito italiano per scoprire che alcune posizioni per il mercato italiano hanno sede operativa a Parigi, alcune a Dublino. In Italia, dove pure ha quattro milioni di utenti, Facebook ufficialmente non esiste.
Chi controlla Facebook? Le condizioni di utilizzo di Facebook parlano chiaro: è vietato utilizzare il network a fini commerciali (per quelli ci sono i banner), di discriminazione razziale, di insulto. Come fa Facebook a tenere sotto controllo i suoi utenti italiani, se in Italia non esiste? Il controllo, verosimilmente, esiste da Dublino o da Parigi. Funziona molto bene sugli abusi a fini commerciali: chiunque sia stato sospettato di utilizzare il network per propagandare un proprio prodotto (anche se puramente intellettuale) si è visto disattivare immediatamente l'account. Il controllo funziona molto peggio - anzi, non funziona affatto - per le altre violazioni. Provare per credere.
Qualche esperimento Per verificare la soglia d'attenzione di Facebook abbiamo condotto un piccolo esperimento. Abbiamo aperto un account Facebook intestato ad un nome visibilmente di fantasia (anche questo sarebbe proibito), cioè Ciccio Sparito. Sparito ha creato quattro gruppi su Facebook, tutti in palese violazione delle norme. Uno inneggiante a Stalin e uno a Goebbels; uno intestato «Fuori gli zingari dalle nostre città»; uno intitolato semplicemente «Luca Fazzo è un porco». La creazione dei gruppi, ovviamente, non è sfuggita ai controllori di Facebook. Ma non è successo assolutamente niente. Ad oggi, i gruppi sono tranquillamente attivi.
La folla del delirio D'altronde i quattro gruppi creati da Ciccio Sparito sono in buona compagnia. A Adolf Hitler sono dedicati oltre 500 gruppi, molti dei quali (come «Hitler Fans») decisamente encomiastici. Di gruppi conto gli zingari ce ne sono decine. Gil ebrei (almeno su Facebook Italia) sembrano più tutelati, ma anche qui saltano fuori il gruppo «Boicottiamo i negozi ebrei» e il macabro «Quelli che usano la bandiera di Israele per accendere il camino». I gruppi dedicati a insulti personali si sprecano. E fioriscono i gruppi in onore di boss della mafia come Totò Riina e Bernardo Provenzano, tanto che il magistrato Pietro Grasso ha ipotizzato una regia di Cosa Nostra dietro la nascita di questi fan club.
Quello che Facebook dice (o non dice) Per capire come questo sia potuto accadere, l'unica possibilità è rivolgersi direttamente a Facebook. Non in Italia. Nè a Dublino, nè a Parigi, ma direttamente a Palo Alto, dove esiste l'unica struttura deputata ai rapporti con i media. Abbiamo chiesto a Facebook di precisare meglio la sua politica di controllo del network, chiedendo di spiegare - ad esempio - come mai vengano oscurati gruppi innocui, o vengano addirittura censurate le immagini di donne che allattano i propri bambini, mentre invece vengono serenamente tollerati i gruppi in sostegno del crimine organizzato. Dopo lunghe insistenze, Facebook ha accettato di rispondere solo con una breve dichiarazione attribuibile genericamente a sue «fonti» che vale la pena di essere riportata per intero. «Facebook è una piattaforma per la discussione on-line che riflette le conversazioni che avvengono al suo esterno: di persona, per telefono, per e-mail. In questo modo vediamo talvolta gli utenti discutere temi controversi. La controversia di per sè, comunque, non è una ragione per disabilitare un gruppo o rimuovere una pagina. Noi rimuoviamo i falsi profili utente per incentivare una cultura del «vero nome» su Facebook. Prendiamo seriamente tutte le segnalazioni e restiamo vigili sul controllo delle nostre condizioni di utilizzo». E qui viene il bello: «Su Facebook esistono sia gruppi pro-Mafia che anti-Mafia. Tutti i contenuti su Facebook, compresi quelli riferiti alla Mafia, devono rispettare le nostre condizioni di utilizzo».
Una proposta: oscurarla Mettendo sullo stesso piano gruppi anti-Mafia e pro-Mafia, e rivendicando il proprio ruolo di specchio di quanto avviene nel paese reale, Facebook sembra in qualche modo lavarsi le mani di quanto accade sulle sue pagine (anche se, come s'è visto, quando vuole sa far rispettare rigorosamente le sue Condizioni di utilizzo). Un senatore dell'Udc, D'Alia, ha proposto un emendamento ad un disegno di legge per tentare di regolamentare Facebook nel caso che al suo interno si compiano reati o apologie di reati. La proposta ha suscitato l'immediata reazione di una parte di utenti, che hanno accusato D'Alì di fare il gioco dei consorzi televisivi che soffrirebbero la concorrenza pubblicitaria di Facebook e di You Tube.
Privacy, un altro esperimento L'impressione, insomma, è che Facebook faccia sostanzialmente quello che vuole. E che stia lavorando a un progetto di business ancora non del tutto esplicitato (ma basta pensare che se domani Facebook chiedesse la modica cifra di 10 euro all'anno ai suoi utenti si ritroverebbe di colpo con 1,75 miliardi annui in cassa). E intanto incamera una banca dati di valore incalcolabile sui suoi utenti. Una banca dati che, anche prima dell'ammissione di Zuckerberg, restava nelle sue mani a tempo indefinito. Lo dimostra un esperimento che qualunque utente può fare, provando a disattivare il proprio account. Riceverà un invito a pensarci bene, poi un altro che lo avviserà di come i suoi amici resteranno male a perderlo di vista. Infine Facebook si rassegnerà. Ma gli farà sapere che il giorno che dovesse tornare sui suoi passi ritroverà il suo profilo intatto.

I suoi gusti, le sue opinioni politiche, i suoi amici, sono rimasti ad aspettarlo, nascosti in un server di Facebook da qualche parte nel pianeta.

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