Le strategie per trasformare il capo del Fascismo in mito

Fu Renzo De Felice a sottrarre lo studio di Benito Mussolini e del fascismo al pregiudizio antifascista, sollecitando così un genuino interesse conoscitivo, non polemico, per questi oggetti. È ora disponibile al pubblico italiano il libro dello storico francese Didier Musiedlak, Il mito di Mussolini (Le Lettere, pagg. 308, euro 35), che segue De Felice in tal senso. Il saggio, da una parte, investiga il tema del mito e del carisma di Mussolini sullo sfondo della liturgia di massa del regime; dall’altra mostra la parziale discrepanza fra questa dimensione mitico-carismatica e il potere effettivo del duce nello Stato fascista.
Durante il ventennio, a opera di Mussolini stesso e del suo entourage, fiorì un filone enorme di libri, articoli, interviste, opere estetiche che animò il «culto» del duce, vale a dire la sua glorificazione. Questo avvenne per mezzo di immagini positive della personalità di Mussolini. Il mito è precisamente questa immagine che, amplificando il soggetto, produce effetti sul pubblico generale (atteggiamenti di adesione emotiva) indipendentemente dalla sua corrispondenza con la situazione reale. Il duce diventa la personificazione della comunità politica e così può essere rappresentato, nel periodo della presa del potere e del suo consolidamento, come l’uomo della provvidenza che condivide con gli italiani la dedizione incondizionata a una causa comune. Anche la terra natìa di Mussolini venne trasfigurata nel «mito romagnolo» collegato con la causa fascista (la Romagna come terra di coloro che, dotati di vitalità, energia e altruismo, lottano nel nome di ideali superiori). Questi e altri motivi sono presenti nella biografia romanzata Dux di Margherita Sarfatti (1926), nei vari scritti di Mussolini, Memorie (1928), Vita di Arnaldo (1932), nei Colloqui con Mussolini di Emil Ludwig (1932), e via elencando.
Spostando la visuale dal mito al carisma, l’accento cade sul tipo di potere posseduto da Mussolini: un potere che si fonda non su procedure legali-razionali, bensì su qualità personali straordinarie, eccezionali. Il carisma, che si congiunge al mito del duce, spiega l’importanza dell’ascolto della parola mussoliniana nelle adunate oceaniche. I discorsi mussoliniani, che hanno uno stile oratorio specifico (il rilievo va all’assertività, non all’argomentazione, e alle interrogazioni retoriche seguite da acclamazioni e urla affermative - il famoso «dialogo» con la folla), non sono che le occasioni verbali in cui il contatto tra il duce e la massa si esprime più fisicamente.
Ma Musiedlak non si ferma qui; e affronta una questione intrigante. Il potere di Mussolini, fondato sul carisma, ne potenzia al massimo l’autorità politica. Di qui una conseguenza. La tesi della storiografia tradizionale è questa: «il Duce era il capo dello Stato e lui stesso comandava il Partito». Musiedlak, rifacendosi a studi degli ultimi vent’anni, la mette in discussione e svolge un’indagine originale sul processo decisionale nello Stato fascista.

Lo spazio di decisione di Mussolini era ascrivibile non tanto al suo potere personale, quanto all’instabile contesto di possibilità determinato dalle istanze del Pnf, dall’ordinamento giuridico, dalle posizioni dei vertici dei Ministeri e delle assemblee (soprattutto il Senato), con cui il Duce doveva scendere continuamente a compromessi in un assiduo processo di manovre e contrattazioni.

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