Lo strazio di Rosa: "Sì, sono i miei piccini"

Vengano qui i Pippi Baudi e i Del Noce, così infastiditi da quest’Italia che si distrae da Sanremo per rincorrere le cronache di Gravina. Vengano a vedere questo, di spettacolo: una mamma chiamata a riconoscere le proprie creature, in quello stato. Personalmente ci ho pensato parecchio, ma non ho trovato niente di paragonabile. Basta guardarla, povera donna: Rosa Carlucci ha quarantadue anni, ma quando arriva all’Istituto di medicina legale potrebbe averne centoquaranta. O soltanto due. Il suo sguardo è inebetito e assente, come di vecchia troppo stanca o di bimba totalmente ignara. I poliziotti, abituati a fare largo per politici e personalità di grido, stavolta hanno un garbo decisamente particolare. Lei, più piccola di due spanne, si lascia guidare verso la porta, come un automa. Da mesi, ormai, si lascia vivere allo stesso modo. Pare quasi spettatrice estranea di una vita troppo dolorosa, per essere sostenuta in prima persona.
Il resto della sua mattinata atroce, l’unica mattinata che nessuna madre vorrebbe mai veder albeggiare sul creato, è la discreta testimonianza del suo avvocato. Si chiama Domenico Molfetta, è padre di famiglia, forse anche per questo non ha nulla del professionista scafato e disinvolto. Racconta di una donna pietrificata, davanti ai resti dei suoi bambini. «È stata male. Molto male, molto male». Eppure, specifica subito, Rosa riesce a mantenere una sua dignitosa compostezza. Nessun grido. Solo un mormorio affranto. Il mormorio doloroso e inconsolabile della Madonna addolorata, la madre che più di tutte e prima di tutte, in queste tetre giornate, teneramente la comprenderà.
Ovviamente, nessuna esitazione: il cuore sanguinante di mamma riconosce subito Ciccio e Tore. Tra madri e figli sopravvive un fluido impalpabile e inspiegabile, dalle origini dei tempi fino agli estremi dell’eternità. E chi lo interrompe più. Rosa annuisce, versa le ultime lacrime, quindi chiede di uscire. Accompagnata dal nuovo compagno, torna nella casa di Mesagne, nel Brindisino. Tra tanti lamenti su una vita ormai vuota, tra tanti dubbi sulla fine dei bambini, troneggia un’ossessione: «Ciccio e Tore vivevano in un posto dove non dovevano stare...». È la rabbia insanabile contro le decisioni dei giudici, che le avevano portato via i fratellini per assegnarli al padre.
Povera donna: per quanto umile e confusa, la prova che supera è da titani. Non è difficile immedesimarsi: basta essere madri, padri, nonni, fratelli. Ma anche semplici esseri umani, ancora capaci di sensibilità e di sentimento. Riconoscere le sue creature, in quello stato. Per lei, oltre tutto, è solo l’ultima tappa di un interminabile Golgota. La sua storia sembra uscire direttamente dai «Miserabili» di Hugo. Quando nasce, in mezzo a una moltitudine imprecisata di fratelli e sorelle, è talmente povera da essere subito spedita in un’altra famiglia. Testimonianza diretta della madre naturale, Antonietta: «Rosa mi è nata di sei mesi. Era un pupazzetto, nell’incubatrice. Io però dovevo andare a lavorare, facevo la cameriera. Mio marito era disoccupato. Così ho affidato Rosa alla signora Lucia, una vicina di casa, che poi l’ha adottata».
Questo l’inizio. Non parliamo del seguito. Un lungo viaggio nel buio. L’unico bagliore sembra il matrimonio con Filippo, ma pure quello finisce nell’incubo. Nel ’90, un anno dopo il sì, in attesa della prima figlia Filomena, è già rissa. «Lui era violento e la mia vita era un inferno», racconta Rosa. Eppure tiene duro, in qualche modo. Scodella altri due figli, proprio loro, Ciccio e Tore. Ma siamo già all’epilogo. Lui se ne va, lei resta con tre figli, senza sapere cosa mettere nel piatto. «I piccoli sono rimasti con me fino al Duemila, ma poi lui ha cominciato a fare la guerra...». Una guerra terribile, sulla pelle dei ragazzini. I giudici pendono dalla parte del padre, che almeno ha soldi per mantenerli. Lei, Rosa, sprofonda nella depressione. Una volta fugge persino a Torino con i figli, senza una lira in tasca. La ritrovano alla stazione, in stato confusionale. Inevitabilmente, il padre ha buon gioco ad ottenere l’affidamento della prole. Ma non è una soluzione. La figlia accusa il papà di molestie, tanto che i giudici la destinano subito ad una comunità. Anche i due fratellini, per un certo tempo, finiscono in comunità. Ma alla fine, sempre grazie a queste insindacabili decisioni giudiziarie, vengono di nuovo destinati a vivere col papà. Rosa è disperata e sfatta. Vive con un altro uomo, ma vorrebbe riavere con sé Ciccio e Tore. Inutilmente. Deve pagare pure un sovrapprezzo: quando i fratellini spariscono, la prima sospettata è proprio lei. Ad accusarla persino la madre, sai quanto amore. La interrogano tredici volte. In paese la guardano di traverso. Un calvario. Un lungo calvario fino all’ultima caduta: il riconoscimento delle sue creature, in quello stato.


Dicono di lei: non è molto lucida. Non è tanto a posto. Dopo tutto quello che ha visto, dopo tutto quello che ha sopportato, la vorremmo equilibrata, colta e magari pure garrula. Non siamo molto a posto neppure noi.
Cristiano Gatti

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