STREHLER

Fece conoscere Brecht. Venerato dai marxisti, lanciò Milva e ebbe un’agitata vita sentimentale

Dieci anni fa un uomo di settantacinque anni dal volto circonfuso di capelli bianchi, come un angelo provvisto dell'inevitabile aureola, preparò l'albero di Natale nel cortiletto della sua casa di Lugano. Nessuno, a cominciare da lui stesso, poteva prevedere che l'alba del giorno successivo l'avrebbe visto cadavere. E che a seguire il feretro come tante pie donne smarrite sotto la croce ci sarebbero state, peggio che alle esequie di un sultano, non una, ma ben tre vedove. Perché il caro estinto si chiamava Giorgio Strehler, il regista più amato e più odiato del mondo che quel mattino non veniva compianto ma celebrato in uno spettacolo di massa dalla moglie Andrea Jonasson, attrice e ultima musa, da Valentina Cortese, attrice ed ex-musa e, per finire in gloria, dalla signorina Mara Bugni che non era né attrice né musa ma solo l'ultima compagna del Genio che veniva scortato all'ultima dimora.
Ma chi era in realtà il signor Strehler? Un uomo bello, intelligente, ambizioso che, da Trieste, prima di sbarcare a Milano aveva fatto dicevano le malelingue la Resistenza in Svizzera e non, come asseriva lui, nella brigata Garibaldi per sconfiggere l'odiosissimo Fascio. E che, nel maggio del '47, al seguito dell'inseparabile Paolo Grassi, acquisito l'assenso del povero signor Greppi, sindaco del capoluogo lombardo che avendo tante commedie nel cassetto sperava che quei due matti iscritti al suo Psi gliele mettessero in scena, aveva dato loro in dotazione la piccola sala di via Rovello ancora imbrattata del sangue delle vittime dei nazisti. Lì il signor Giorgio fu cresimato Strehler, cioè il Massimo, l'Unico, l'Unto da Dio in alcune messinscene memorabili che nessuno sogna di contestargli. Contrassegnate, le più celebri, dal nome di un altro intoccabile e cioè Herr Bertolt Brecht, il poeta di Augusta venerato dai marxisti chic di stanza all'Einaudi che ne stampa in quegli anni l'opera omnia.
Per merito di Herr Strehler si grida dunque al miracolo quando va in scena la rutilante coloratissima Opera da tre soldi seguita a ruota dal delirio di un povero soldatino sperso tra le nevi, Schweyck nella seconda guerra mondiale, e soprattutto da quella Vita di Galileo che nel'63, in pieno miracolo economico, suscita lo sdegno della Curia per l'evidenza che viene data alle responsabilità del Vaticano nella condanna dello scienziato di Arcetri in quello straordinario allestimento. Una sinfonia di bianchi e grigi tra Morandi e Jackson Pollock ancor oggi studiata, nei bozzetti che ce ne rimangono, da studiosi e teatranti di mezzo mondo.
Nel frattempo il Maestro - come tutti lo chiamano - coltiva la privacy tumultuosa e scatenata che si conviene a un moderno Casanova. Lasciata in fretta la danzatrice Rosita Lupi sposata in un empito giovanile, il Nostro infatti s'incapriccia di una giovane allieva assai dotata per il canto di nome Ornella Vanoni che, con la sua voce roca, intona i couplets della rivoluzione francese nei Giacobini. Per genuflettersi infine ai piedi di Valentina Cortese, la star giunta da Hollywood che nella vita inalbera il più seducente dei birignao gratificando amici e nemici di teneri vezzeggiativi. Tutto bene quindi? Ahimè no, perché è in agguato il Sessantotto e il Genio, per non sentirsi scavalcato a sinistra, decide con un colpo d'azzardo che i soliti maligni pensano abilmente preventivato da quel volpone di Grassi di uscire dall'istituzione per mutarsi nel Che Guevara del teatro militante. Con un testo come la Cantata di un mostro lusitano di Peter Weiss dove compare anche Milva, appena reclutata nel gran circo di questo magnifico seduttore che tuttavia le dedica un'assistenza puramente artistica.
E intanto il Piccolo, orbato di tanta presenza, che fa? Risposta: annacqua penosamente finché d'Oltralpe, non arriva un giovanottino ventottenne chiamato Chéreau che suscita la diffidenza di Giorgio. Detto fatto, tre anni dopo l'abiura, Strehler lo scaccia e torna a Canossa con uno stupefacente Re Lear e una stupefacente ultima musa, la tedesca Andrea Jonasson, che subito docile impara la nostra lingua per debuttare al Piccolo e non lasciarlo mai più. Ma in tanta gloria cominciano ad addensarsi cupe ombre. Un po' perché il Maestro fa le bizze e sforna capolavori più intermittenti che effervescenti e un po' perché i compagni socialisti, Craxi in testa, vorrebbero al timone del Piccolo nuovi delfini meno dotati ma più arrendevoli al diktat del nuovo segretario. Sono comunque inconvenienti da poco paragonati a una delle ultime tempeste che si accaniscono su di lui e la sua amata creatura, quel teatro sempre di stanza in via Rovello che fa tanta fatica a stanziarsi nella nuova sede.
Anche se l'accusa di appropriazione di fondi della Comunità Europea stornati per contenere le spese del monumentale Faust che lo vede protagonista prima si accartoccia e poi si incenerisce, il Genio è ora in difficoltà. Pur se ancora capace di guizzi inattesi da magnifico clown.

Come succede a Mosca quando, fischiato dai russi che non tollerano di essere da lui chiamati «cari compagni», lo strepitoso gigione promosso senatore del Pci si volta e, sostituito il distintivo con la più innocua Legion d'Onore, riprende il discorso interrotto con un affettuoso «Amici cari» che gli procura l'ultima ovazione. Perché chi, come lui, è in grado di creare «La grande magia»? Abbasso Strehler, viva Strehler! Che aveva tutti i pregi e tutti i difetti di un altro arcitaliano: Curzio Malaparte.

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