La stupidità del saputello che se la tira da intellettuale

Sfornare luoghi comuni credendo di dispensare verità: il mondo della cultura sa sempre come rendersi ridicolo

La stupidità del saputello che se la tira da intellettuale

M i capita ogni giorno: tu sai una cosa, l'hai studiata, e te la spiega chi non ne sa niente. «Guarda, io non me ne intendo, però...». E però allora stai zitto, scusa. È ciò che Gustave Flaubert chiamava la bêtise , la stupidità umana, soprattutto quella culturale, tema a cui ha dedicato il suo ultimo grande romanzo, il più comico e al contempo corrosivo: Bouvard e Pécuchet . E pensare che Flaubert non aveva visto i nostri talk show, e nessuno aveva uno smartphone a portata di mano, per cui oggi ancora più che alla fine del XIX secolo viviamo in una società di tuttologi ignoranti, basta buttare un occhio a Wikipedia. Abbiamo creato anche un mestiere ad hoc: l'opinionista. Cioè qualcuno che non sa niente e parla di tutto. E crediamo fermamente che le opinioni vadano rispettate: le opinioni, attenzione, mai i fatti, sempre opinabili.

Quante volte si dice «braccia rubate all'agricoltura», col cavolo: Bouvard e Pécuchet sono proprio due signori, di mestiere copisti, che in seguito a un'eredità improvvisa si trasferiscono in campagna con l'idea di dedicarsi proprio all'agricoltura, con esiti disastrosi e comici. Non meglio va con la chimica, la geologia, la medicina, la letteratura, e ogni campo dello scibile umano. E proprio da questi fallimenti viene costruita, pagina dopo pagina, la geniale macchina da guerra di Flaubert di critica della cultura, a partire da due dilettanti allo sbaraglio che avrebbero potuto interpretare, in versione italiana, due come Totò e Peppino.

Ultima opera di feroce vendetta, con esplicita dichiarazione dello stesso Flaubert: «Finalmente potrò esprimere il mio modo di pensare, vomitare il mio odio, esalare il mio risentimento, espettorare il mio fiele, eiaculare la mia collera, detergere la mia indignazione». Indignazione trasformata letterariamente in un capolavoro e in un'arma a doppio taglio, perché nell'impresa dei due protagonisti (assorbire e discutere ogni argomento, filosofico, scientifico, letterario) la verità è mescolata al luogo comune in maniera indistinguibile. Con un lavoro di documentazione spaventoso, Flaubert volle arrivare a comporre «una specie di enciclopedia della stupidità umana», e per sei anni, prima di iniziare la stesura (cominciata nel 1874 e lasciata incompiuta all'ultimo capitolo nel 1877 per la morte dell'autore), consultò oltre millecinquecento testi.

Da una simile, imponente documentazione, vennero fuori anche Dizionario delle idee correnti e il Catalogo delle idee chic , per ogni voce una definizione, molte delle quali attualissime: carino «si usa per tutto ciò che è bello», i classici «si presume che uno li conosca», le cozze «sono sempre indigeste», l'esasperazione «è sempre al colmo», ogni eccezione «conferma la regola, non azzardarsi a spiegare come», e la fabbrica «è sempre vicina e malsana».

Dal punto di vista popolare è il discorso da bar o da salotto, sul versante culturale è il morto citazionismo degli umanisti, dove tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo: ha detto Platone, ha detto Aristotele, ha detto Kant, perfino ha detto Einstein, in genere per qualche frase entrata nel discorso comune, del genere «Dio non gioca a dadi con l'universo», se chiedete cosa significa, nessuno lo sa, ma qualcuno userà l'affermazione magari per sostenere che Einstein era credente. Così nei dialoghi tra Bouvard e Pécuchet qualsiasi argomento è una citazione: «Il potere, quindi, viene dal popolo. Esso ha diritto di “fare tutto ciò che vuole”, dice Helvetius, “di cambiare la sua costituzione”, dice Vattel, “di rivoltarsi contro l'ingiustizia”, sostengono Glafey, Hotman, Mably, eccetera. E San Tommaso d'Aquino lo autorizza a liberarsi dai tiranni. Jurieu dice che è perfino dispensato dall'obbligo di aver ragione». Nelle discipline umanistiche questo dice, dice, dice, perennemente sincronico e di uguale valore, è la norma. Platone e Aristotele convivono con Wittgenstein e Nietzsche, cosa che non capita in ambito scientifico: Copernico prova gli errori di Tolomeo, e Einstein quelli di Newton.

A proposito si è scritto che Flaubert, con Bouvard e Pécuchet , prenda di mira anche la scienza, ma non è esatto: Flaubert, colui che ha scritto la frase più lapidaria e scientifica sulla morte di una persona, Emma Bovary («elle n'existait plus»), denigra piuttosto il parlare pseudoscientifico, quello che ci fa citare gli antiossidanti senza sapere cosa significhi, quello che non distingue l'astronomia dall'astrologia, come sento spesso dire quando mi domandano di che segno sono, se protesto rispondono: «Non ci credo neppure io, però alcuni caratteri corrispondono davvero».

Nell'illusione del loro goffo e ridicolo intento di conoscenza, Bouvard e Pécuchet rappresentano la versione culturalistica del Don Chisciotte , non a caso modello di riferimento di Flaubert insieme al Candide di Voltaire.

Tuttavia, a differenza dei nostri contemporanei, i due autori, in maniera più raffazzonata dell'autodidatta di Sartre (il quale almeno procedeva in ordine alfabetico), si documentavano, piluccavano da libri, comprendendoli a metà o fraintendendoli completamente, in ogni caso citando le loro fonti reputate autorevoli, d'altra parte erano dei copisti. Oggi tutto questo è superato in un'idiozia culturale di grado superiore, basta un «l'ho letto su internet».

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