Cultura e Spettacoli

Stupisce ma piace l’«Aida» senza la Marcia trionfale

A Macerata l’inatteso allestimento essenziale di Massimo Gasparon, allievo di Pizzi, ha conquistato la platea

Paolo Scotti

da Macerata

Partiamo dal momento clou: quello che tutti conoscono, quello che tutti aspettano. Si chiama «Marcia trionfale» e - da che opera è opera - si pretende faccia allargare la bocca in faraonici «ooooh!» di stupore. Be’: stavolta non solo mancano cammelli ed elefanti (che quelli, ormai, latitano da un pezzo), non solo non c’è neppure un armigero che porti la lancia come fosse una canna da pesca e perfino Radames si presenta senza uno straccio di cocchio. Stavolta manca proprio la marcia. Nel senso che, sulla stranota fanfara dell’Aida, nessuno caracolla con passo svogliato la solita, tutt’altro che trionfale parata. Ma una dozzina di eccellenti ballerini di colore interpreta con talento una vigorosa danza rituale.
Basterebbe questo, per connotare la diversità dell’Aida che, senza nessuna concessione al kolossal di cartapesta o alle cianfrusaglie da trovarobe, ma anzi con asciutta eleganza, sabato sera ha raccolto gli applausi del pubblico dello Sferisterio Opera Festival. La premessa è la stessa di tutte le produzioni (oltre ad Aida, anche Flauto Magico e Turandot) volute dal direttore artistico Pizzi: sull’unico tema del percorso iniziatico un unico modulo scenico - un gran palco argenteo ricco di botole e scalinate - con alcune varianti usato per tutte e tre le opere. Ma soprattutto la stessa, lucida linearità interpretativa, fatta di accurata essenzialità. Accuratezza di cui fa tesoro il regista Massimo Gasparon, che di Pizzi è allievo. Innanzitutto vestendo i cantanti con evocazioni orientali dal chiaro simbolismo cromatico: tuniche plissé bianco ghiaccio e vistosi monili dorati per i ricchi egizi; pepli africani neri e luttuosi sulle pelli d’ebano per gli etiopi schiavi. Quindi imponendo ai cantanti una recitazione stilizzata, forse con un po’ di manierismo melodrammatico di troppo. Infine abilmente superando il limite dell’ambientazione unica (niente geroglifici in technicolor o palmizi al chiaro di luna, naturalmente, ma una piramide stilizzata e obelischi bianco-oro sul fondo) coi movimenti sempre fluidi e composti delle masse. Unico neo: la scarsa chiarezza della lettura «iniziatica», secondo cui invece di morire con Radames, Aida si suiciderebbe per liberarlo delle sue colpe. Suicidio che difatti, a chi non abbia preventivamente letto le «note di regia» di Gasparon, resta del tutto incomprensibile.
Alla felice impostazione della regia s’accompagna una buona resa musicale salda negli acuti anche se non del tutto a suo agio nelle mezze voci, Raffaella Angeletti è un’Aida di bella tempra, in gara con la passionale e vigorosa Amneris di Mariana Pentcheva. Apprezzatissimo Orlin Anastassov (Amonasro), meno sicuro di sé il Radames di Walter Fraccaro. Sul podio c’era un affidabile Stefano Ranzani; le belle coreografie erano firmate da Gheorghe Iancu.

Alla fine applausi (meritati) per tutti.

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