«Su alcuni temi il virtuale diventa concreto»

Eleonora Barbieri

A una certa età è difficile che la mamma o il papà siano i primi confidenti: è così da sempre. Ma, oggi, potrebbe essere diverso, perché diversa è la generazione di adulti, mamme e papà che hanno vissuto la rivoluzione sessuale, l’emancipazione, il cambiamento del costume, anche in famiglia: «Il problema è che, forse, non ci siamo dedicati fino in fondo al dialogo con i nostri figli». Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e fondatrice del Movimento Bambino, da anni si occupa di bimbi e adolescenti. E il dato diffuso dall’osservatorio dei minori non la stupisce: «I ragazzini sono immersi nel virtuale: sono abituati a stare attaccati al computer, per loro la comunicazione virtuale ha sostituito, in molti casi, quella reale. Chiacchierano su internet con l’amico che potrebbero benissimo incontrare sotto casa».
È un mondo isolato, ma diverso da quello della vecchia tv, perché dà la sensazione dell’interattività: domanda, risposta. La macchina è così: «C’è, anche quando il genitore è fuori casa, al lavoro, o troppo impegnato. Il computer è sempre lì, pronto a infilarsi in ogni buco, in ogni incertezza». Così, al dubbio risponde la macchina: anonima. «In un mondo in cui la riservatezza è scomparsa, la macchina garantisce un po’ di privacy: il ragazzino si fa scudo di uno pseudonimo per porre domande che lo imbarazzano, e ottiene risposte da un altro estraneo». I genitori potrebbero rispondere. Ma hanno dei nemici: «La fretta, i ritmi, le esigenze di lavoro non sono a misura di bambino». Cura, quella parola che Heidegger ha riscoperto: «Parlare con un figlio non significa ricordarsene ogni tanto: è un legame che si crea giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. È il rito, la volpe che chiede al Piccolo Principe di addomesticarla».

Sotto sotto, gli adulti sono sempre più fragili, e i figli se ne accorgono: «La macchina è perfetta, dà risposte che sembrano molto più sicure rispetto alle incertezze dei genitori. Appare meno umana, ma più esatta». Per questo, ci vuole cura. Tempo. È il rito che ti lega, che non ti abbandona.

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